Quando giunsero in Friuli, alla metà circa del VI secolo d.C., i Longobardi incontrarono una realtà culturale variegata: la popolazione romana autoctona, già da secoli divenuta cristiana, conviveva con nuclei di popoli Slavi provenienti dalla penisola balcanica. Il processo di iniziale scontro si trasformò gradualmente in integrazione e reciproco scambio, soprattutto culturale.

Anche sul piano alimentare le cose cambiarono in modo notevole: la classica triade romana olio-vino-grano, base della dieta mediterranea, non era molto in voga tra i Longobardi che consumavano piuttosto carne e grassi animali, tipici delle popolazioni guerriere. Tuttavia, i cambiamenti che seguirono la caduta dell’Impero romano d’Occidente influenzarono molto anche la vita e le abitudini quotidiane. Le città e i campi vennero abbandonati, complice la drastica diminuzione della popolazione, e questo determinò un ampliamento dei terreni incolti e quindi della selvaggina. Parallelamente, a partire circa dall’VIII secolo, si diffuse sempre più il modello della curtis che rappresentava il centro amministrativo del territorio ed era divisa in pars massaricia (i poderi che la costituivano venivano concessi a coloni dipendenti) e in pars dominica (gestita direttamente dal dominus, signore, e lavorata dai “servi prebendari”).

Grazie ai contratti agricoli che sono giunti fino ai giorni nostri, è possibile farsi un’idea abbastanza precisa di quali fossero le colture più diffuse: segale, orzo, frumento e cereali minori come avena e miglio. Anche i legumi erano molto importanti nella dieta tardoantica e altomedievale: molto amati erano i ceci e i fagioli che venivano consumati interi (in zuppe ad esempio) ma anche macinati e ridotti a farine panificabili.

Gli orti, situati sempre vicino all’abitazione e destinati alla produzione di ortaggi ed erbe, erano così importanti nella società longobarda che sono addirittura menzionati nell’editto di Rotari.

La vite poi era una coltivazione molto diffusa in tutto il Friuli e godeva di particolari attenzioni. I vigneti erano di solito recintati e diligentemente controllati e nei documenti vengono segnalate in modo preciso le operazioni da effettuare per impiantarne uno. Inoltre erano previste speciali agevolazioni per chi avesse voluto creare uno nuovo.

I terreni incolti erano non meno importanti nell’economia longobarda. I boschi di querce e faggi, il cui terreno era ricco di ghiande specie nel periodo autunnale, erano il posto ideale per l’allevamento dei maiali. Inoltre i boschi offrivano la possibilità di raccogliere molti frutti spontanei e di approvvigionarsi di miele che ha rappresentato per secoli, in Europa, l’unica sostanza dolcificante nota.

La carne non smise mai di essere uno degli alimenti principali dei Longobardi sebbene, come già ricordato, si sia assistito a un processo d’integrazione con la popolazione autoctona piuttosto rapido. L’allevamento rappresentava un elemento così importante nelle società barbariche che nei loro ordinamenti legislativi vi erano sempre dedicati molti articoli. Tra tutti gli animali, il maiale era quello espressamente destinato al consumo: veniva allevato allo stato semibrado nei boschi dove, non di rado, si ibridava con i cinghiali. La figura del porcarius viene citata specificamente nell’Editto di Rotari perché questo mestiere era considerato superiore a quello del pastore e addirittura di ogni altro lavoratore. Gli ovini erano allevati principalmente per il latte e la lana perché la loro carne non era particolarmente apprezzata mentre i bovini erano considerati animali da lavoro. Minore, anche se comunque rilevante, è l’allevamento di animali da cortile. Un caso a parte è invece rappresentato dai cavalli che, nella cultura longobarda, erano animali sacri e pertanto non destinati al lavoro nei campi.

Anche la selvaggina faceva parte della dieta longobarda: per le famiglie di coloni gli animali dei boschi (lepri, cinghiali o caprioli) erano un’importante integrazione alla dieta prevalentemente vegetale mentre per i nobili la caccia era lo svago per eccellenza. Questa veniva praticata in modi diversi a seconda dell’animale prescelto e in ogni caso era un’attività che richiedeva abilità, forza fisica e amore per il rischio.

Nell’alto medioevo non si distingueva molto tra dolce e salato e c’era una diffusa tendenza ad amalgamare i sapori. La dieta dei nobili era ovviamente molto diversa da quella del resto della popolazione. La carne di maiale era comunque, quasi per tutti, uno degli alimenti principali. Veniva conservata sotto sale, affumicata o insaccata così da poter essere consumata durante il corso dell’anno. Le carni venivano cotte sullo spiedo o bollite e sempre accompagnate con salse speziate, perlopiù a base di vino. I meno abbienti mangiavano molti più legumi e cereali rispetto ai nobili.

Molto in voga erano anche le focacce farcite e imbottite che ricordano molto le odierne pizze.

Il calendario liturgico influenzava l’alimentazione e nei numerosi giorni di magro previsti si consumavano pesci quali carpe, ghiozzi e lasche provenienti dai corsi d’acqua o appositamente allevati in vivai.

Le spezie erano molto impiegate, specie dai ricchi che si servivano di quelle più pregiate e costose provenienti dall’Oriente (chiodi di garofano, cannella, pepe e cumino) mentre i ceti inferiori utilizzavano le erbe aromatiche comuni che coltivavano negli orti.

La dieta longobarda non trascurava i dolci per i quali si utilizzavano soprattutto frutta, fresca o cotta, e miele. Focacce, confetture e budini – già conosciuti e apprezzati in epoca romana – continuarono per secoli a essere i dessert preferiti nelle occasioni speciali.

A distanza di oltre mille anni è per noi possibile ricostruire la dieta longobarda grazie a due fonti: i documenti e i reperti archeologici. Questi ultimi ci forniscono informazioni circa gli strumenti utilizzati in cucina ma anche notizie riguardanti i cibi consumati principalmente (le analisi scheletriche effettuate su diversi soggetti rinvenuti nelle necropoli longobarde friulane sono, in questo senso, molto ricche di dati). Per quanto riguarda i documenti, oltre ai già menzionati contratti e norme, è certamente di fondamentale importanza il trattato De observatione ciborum di Antimo (VI secolo) che fa riferimento alla corte di Teodorico ma che ben si adatta anche alla realtà longobarda e le Etymologiae di Isidoro di Siviglia.

Per approfondire questo vasto argomento si consiglia il testo “Alla tavola di re Rotari” curato da Elena Baiguera e Francesca Morandini e “Cibi e sapori nell’Italia antica. L’alimentazione a Cividale dal ducato longobardo alla corte patriarcale”, a cura di Fabio Cavalli, Serena Vitri e Angela Borzacconi.

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