Succede a volte che il libro più importante, quello che più rimane, che più riesce a dire, capiti quasi alla fine dell’esistenza artistica di un autore, quando sopraggiunge la maturità, la consapevolezza, quando si hanno alle spalle tanti altri lavori, tanti progetti già conclusi. Capita che un romanzo nasca come un’autobiografia (quasi una presa di posizione narcisistica) e riesca a evolversi fino a diventare un racconto, una maniera chiara e indispensabile per spiegare una precisa geografia di ricordi e di spazi scomparsi.
La lingua salvata nasce riflettendo su un atlante politico rivisitato, su un’Europa stravolta radicalmente in sedici anni. È, infatti, la storia di una giovinezza (come giustamente evidenzia il sottotitolo del romanzo) che inizia nel cosmopolitismo del vasto impero Austroungarico e si conclude in Svizzera, un luogo in qualche modo esterno ai fatti storici più recenti ma anche un osservatorio vicino da cui poter analizzare le conseguenze della sconfitta austriaca nella Prima Guerra Mondiale, il crollo e al riassetto del vecchio regime politico europeo, la nascita di nuovi confini. Distanza e vicinanza, sono proprio questi i due assi lungo i quali si sviluppa e prende forma il raccontato: si parla della casa natale dell’autore in Ungheria, dei nonni, del paese e di una quotidianità tuttavia inserita in un contesto più grande, enorme, come quello dell’Impero di cui Vienna è il centro politico e culturale; si narra di eventi lontani, come l’assassinio del Arciduca Francesco Ferdinando d’Asburgo a Sarajevo o la Prima Guerra Mondiale, che però diventano tangibili nei gesti di ogni giorno delle persone, nelle descrizioni dei migranti che scappano dai confini attaccati dall’esercito russo oppure in quella di una classe scolastica dove viene interrotta la lezione per cantare ad alta voce l’inno dell’Impero. Spesso sembra di ritrovare, tra le pagine di Canetti, alcuni di quei racconti yiddish, nati all’interno dei piccoli shtetl dell’Europa orientale (di cui ottimamente parla Claudio Magris nel suo saggio Lontano da dove: Joseph Roth e la tradizione ebraico-orientale), in cui tutto prende forma a partire dalla contrapposizione tra il vivere quotidiano e chiuso dei villaggi e invece l’esterno, la Storia.
L’astoricità de La lingua salvata, o meglio il riuscire a raccontare un’esistenza umana nelle sue dimensioni più lontane dalla Storia riuscendo però a far necessariamente intrecciare le prime con l’ultima, è una delle caratteristiche principali del romanzo: così, il padre del protagonista che vuole andare in Inghilterra diventa, in opposizione ai nonni e al piccolo paese in cui essi abitano, l’identificazione, per Canetti, di una modernità che si contrappone alla tradizione, di un progredire che si scontra con la staticità.
Questo romanzo è innanzitutto una preziosa testimonianza di un cosmopolitismo e di un apolidismo reale e capace di riuscire a tutelare e mantenere le particolarità e le differenze culturali e non del locale, del vicino, di lingue diverse parlate all’interno del medesimo grande territorio politico; ma La lingua salvata è anche un ragionato e attento saggio di metascrittura, uno studio sulla parola e un tentativo di preservarla, assieme a tutto quel valore identitario che essa sempre porta con sé, da tutte le barbarie storiche, dall’antisemitismo alla guerra. Una parola che sa raccontare la Storia ma che da essa non si fa deviare, rimane ancorata ad una precisa morale di derivazione familiare (con un’interpretazione che chiama in causa la psicologia) e culturale. Sembra proprio di leggere, tra queste pagine, ciò che Gershom Scholem, in un’intervista, intendeva quando parlava di come la psicologia si sia posta, a partire dall’inizio del novecento, come sostituzione della morale e dell’Etica.
In conclusione, può essere interessante fare un confronto proprio con il libro Da Berlino a Gerusalemme di Scholem, anche esso di carattere autobiografico, in cui viene narrata la progressiva scoperta e presa di coscienza da parte dell’autore della sua identità culturale ebraica, che poi porterà a una presa di posizione sionistica in senso culturale, e in cui viene mostrato in maniera autentica tutto il variegato contesto ebraico tedesco precedente alla Seconda Guerra Mondiale. Entrambi i due libri, infatti, sono ottimi esempi di una scrittura fortemente etica e privata che si pone in dialogo critico con la storia.
Carlo Selan nasce a Udine nel 1996 e attualmente frequenta la facoltà di Lettere presso l’Università di Trieste. Attualmente, scrive e collabora per diversi blog e riviste di cultura come L’oppure, Constraint Magazine, TX2teatriudine, Digressioni, TamTam, ARGO – poesiadelnostrotempo.