Senza neanche accorgercene, passiamo tutta la notte al lavoro. Abbiamo fatto il possibile: nonostante i cannoni non si fossero fermati un attimo, siamo riusciti a chiudere a fatica buona parte delle falle. Le pietre e i mattoni si erano esauriti sin da subito pertanto era stato necessario usare tutto quello che è capitato a tiro, carri, botti e persino mobili. Un gran lavoro che sembra però non bastare: da un momento all’altro una breccia non riparabile potrebbe formarsi in più punti. E’ solo questione di tempo. I pordenonesi ormai lo hanno capito e tentano di salvare sé stessi rinchiudendosi in casa. Molti si stanno rifugiando presso le chiese, in particolare in quella di San Marco, nella speranza che dentro la Casa di Dio non scorra sangue. Essendo probabilmente il posto più sicuro, nonché spazioso, anche noi ci dirigiamo là.
Sono le 12:03 del 30 marzo 1514. Da dentro la chiesa sentiamo un suono improvviso, talmente forte da rimbombare persino nell’edificio. Dev’essere avvenuto uno sfondamento da qualche parte. Entro una decina minuti entra un ragazzo: nonostante il fiatone dovuto alla corsa che aveva fatto, informa tutti i presenti che la Porta trevigiana era caduta e che i veneziani stavano passando a fil di spada chiunque si trovassero davanti, entrando nelle case e nelle chiese, senza mostrare pietà. In breve il terrore assale noi e i presenti: la speranza di uscirne vivi è sempre più lontana. Il panico si diffonde velocemente: tra grida di paura e isteria, molti si stringono ai loro cari, pregano o tentano di organizzarsi alla meno peggio per resistere.
Fuori intanto si cominciano a sentire grida disumane, urli, pianti, lamenti atroci, quasi di un altro mondo. Nessuno ha il coraggio di uscire a vedere cosa stia accadendo, nemmeno per sapere se quelle voci strazianti provengono da un loro caro o conoscente. E’ un crescendo di tensione sempre più elevato, un’attesa snervante che impedisce persino di muoversi.
Non passa molto prima che la porta di San Marco venga spalancata con violenza. Ad entrare, questa volta, non è un altro ragazzo ansimante. Controluce, scorgiamo una figura familiare a cavallo: Bartolomeo d’Alviano, affiancato da un manipolo di soldati, si erge trionfante sui presenti, entrando e presentandosi come un conquistatore. E’ veramente la fine, pensiamo: ora darà ordine ai suoi di fare un massacro e a rimetterci saremo proprio noi.
Roteando la spada intima con voce dura ai chierici di uscire: in caso contrario non avrebbe mostrato pietà. Senza ripeterlo due volte, i religiosi escono in fretta e furia. Noi siamo costretti a restare dove siamo, attoniti mentre coloro che avrebbero dovuto dare conforto alle anime dei presenti se la filano senza opporre resistenza. Usciti questi, Bartolomeo riprende la parola: per il fatto di aver supportato i tedeschi, dice, i pordenonesi non meriterebbero la pietà e la bontà sua e dei suoi uomini. Sembra l’abbia presa sul personale, in fin dei conti gli abitanti, aiutando gli imperiali, non si sono dimostrati affatto fedeli alla sua persona.
Ciononostante, prosegue, è disposto a evitare il massacro in chiesa, aggiungendo però che, una volta usciti, ciascuno sarà responsabile di sé e della sua salute: in pratica ci sta dando la possibilità di salvare la pelle, gettandoci al contempo in pasto ai leoni. Piuttosto che morire in quel luogo, tutti i presenti son ben disposti a cogliere questa possibilità e a filarsela. In breve la chiesa si svuota. Ovviamente, tra la folla che esce ci siamo anche noi.
Fuori, l’immagine che ci si pone davanti è infernale, degna del miglior Dante: i soldati veneziani, come fossero animali feroci, stanno saccheggiando le abitazioni, uccidendo e sgozzando come capretti i tedeschi e non. Alcune case hanno preso fuoco e da molte udiamo delle grida di donne che chiedono pietà o di aver salva la vita. Il pensiero su quale delitto in particolare si stia compiendo in quelle abitazioni non lascia intendere altre interpretazioni. Per strada solo cadaveri dilaniati e sangue a fiumi: non si può percorrere la Contrada senza incappare in scene di violenza, brutalità e saccheggio o inciampare su qualcosa, viva, morta, agonizzante che sia.
Non avendo una meta, né un posto dove nasconderci, unica cosa che ci può garantire la salvezza al momento è il restare in movimento. Correndo ci dirigiamo senza neanche volerlo verso il Castello: qui scorgiamo un manipolo di soldati veneziani ben schierati, i quali avevano posto i cannoni, utilizzati in precedenza per bombardare le mura, nell’area antistante l’ingresso, nel tentativo di sfondare la porta ed entrare nell’edificio. E’ probabile che i restanti soldati tedeschi si fossero asserragliati nella speranza di resistere il più possibile: sanno bene il destino che li attende in caso di resa.
Ci nascondiamo dietro alcune botti, nei pressi del convento di San Francesco. Il comandante veneziano sta urlando in direzione del Castello, ordina agli assediati la resa incondizionata. Per demoralizzarli e spingerli ad uscire, aggiunge che il capitano Rizano era caduto loro prigioniero durante la battaglia del giorno prima e che non gli era stato fatto alcun male. Almeno non è morto, pensiamo. Poiché dall’edificio non giunge risposta, il comandante ordina di intensificare le bordate.
L’assedio è lungo e si protrae per il resto del pomeriggio, finché al tramonto i veneziani riescono ad entrare. Ovviamente siamo ben lungi dal seguirli, probabilmente vi sarà un massacro totale. Meglio non aspettare oltre, fin qui siamo stati fin troppo fortunati. Per essere sicuri di salvarci, dobbiamo uscire dalla città il più in fretta possibile. Approfittando del calar delle tenebre, quatti come gatti, ci dirigiamo alla Porta delle Monache (oggi corrispondente grossomodo a via Cesare Battisti).
L’ingresso è aperto, di guardia non c’è nessuno. Svelti lo superiamo e corriamo verso la campagna: sicuramente sarà più facile nascondersi e aspettare l’alba. All’orizzonte, ormai quasi buio, scorgiamo innalzarsi nel cielo due distinte colonne di fumo, in due diverse direzioni, una verso Cordenons l’altra verso Rorai. E’ probabile che i veneziani o, se non loro, altri rinforzi di Bartolomeo, si fossero nel frattempo dati da fare anche nelle zone limitrofe. Forse è meglio non aspettare l’alba: per evitare di sfidare ulteriormente la sorte e incappare in altri guai, decidiamo di cambiare epoca.
Pordenonese doc, classe 1992. Dottore di ricerca in Scienze storiche tra l’Università di Padova, Ca’Foscari di Venezia e Verona, mi piace pensarmi come spettatore di eventi che in un futuro lontano saranno considerati storia. Far conoscere al meglio e a quanti più possibile il nostro passato, locale e non, è uno dei miei obiettivi e come tale scrivo con passione per le mie amate Radici.