Verso la fine degli anni Sessanta l’umanità intera guardava al cielo partecipando emotivamente allo sbarco più famoso di sempre, quello dell’uomo sulla Luna. Ma c’era anche chi, come dalle nostre parti, guardava altrove, sotto i suoi piedi. O meglio sotto la sua barca.
Tra il 1969 e il 1971 il Lago di Cavazzo, il più esteso lago friulano, fu oggetto di un esperimento pionieristico: capire se fosse possibile vivere e lavorare per lunghi periodi in ambienti posti in condizioni ambientali difficili. Qualcosa di simile all’esperimento attualmente in corso sulla ISS in orbita attorno alla Terra, per l’epoca altrettanto affascinante poiché voleva rappresentare una nuova ambiziosa frontiera del lavoro e della colonizzazione umana realizzando la “prima città subacquea del mondo“.
L’idea venne partorita dal fondatore e presidente del CISG (Centro Italiano Soccorso Grotte) Luciano Mecarozzi e fu realizzata grazie alla collaborazione di diverse istituzioni quali l’Esercito Italiano, la Marina Militare, l’Università degli Studi di Trieste e dell’Aquila, i ministeri dell’Interno e della Difesa, l’ENI, l’Assessorato al Turismo della Regione Friuli Venezia Giulia, il Consiglio Tecnico Scientifico della Difesa e l’Ospedale Santa Maria della Misericordia di Udine.
Non un progetto qualunque quindi, poiché il fatto di portare un gruppo di persone a vivere sott’acqua per un medio periodo poteva comportare un interesse scientifico di livello internazionale non da poco. Al di là dei sommergibili, nessuno aveva idea di cosa volesse dire vivere sotto metri cubi d’acqua, con tutte le conseguenze del caso. Soprattutto se si voleva dimostrare che l’uomo, in un ambiente organizzato, sarebbe stato in grado di svolgere determinate mansioni senza mai tornare in superficie, in tal senso evitando problematiche fisiologiche e tempistiche derivate dalla compressione e decompressione in fase di immersione ed emersione.
Nome: Operazione Atlantide. In pratica si trattava di porre sul fondale del lago alcuni speciali contenitori in grado di garantire la sopravvivenza a un gruppo di dodici persone per un tempo indeterminato. Tali contenitori erano rappresentati da cinque grandi cilindri metallici, lunghi dieci metri e con un diametro di due, tre dei quali destinati all’equipaggio mentre i restanti all’erogatore d’aria e al magazzino delle provviste.
Per fare ciò Mecarozzi ottenne un finanziamento di venti milioni di lire (pari a circa 190.000 euro) dalla Regione, integrati con alcuni contributi degli sponsor. I fondi raccolti non erano tuttavia sufficienti e quindi si dovette provvedere con un autofinanziamento da parte del CISG.
Il 3 settembre 1969 tutto era pronto per la fase 1: nonostante i diversi dubbi logistici, estesi anche alla preparazione fisico-psicologica degli interessati, e scientifici, si procedette a far immergere le dodici persone previste, tra cui una donna. Nel corso del periodo di permanenza, durato fino al 28 dello stesso mese, l’equipaggio si prodigò in un singolare compito: raccogliere bombe sul fondale. Immediatamente dopo la Seconda guerra mondiale il Lago di Cavazzo infatti era stato scelto come deposito d’abbandono di una certa quantità di esplosivi e si era reso necessario rimuoverli.
Nonostante ciò la fase 1 si caratterizzò per uno scarso interesse mediatico, derivato forse dal fatto che l’esperimento aveva tratti amatoriali e relativamente poco scientifici (al termine del lavoro subacqueo giornaliero, ad esempio, i protagonisti in genere salivano in superficie per andare al bar).
La fase 2 voleva essere qualcosa di diverso: avviata il 24 settembre 1970 e conclusasi un mese dopo, il 25 ottobre, essa prevedeva un numero minore di sommozzatori i quali, intervallandosi con un secondo gruppo, dovevano passare almeno 15 giorni nei moduli abitativi. Ma anche in questo caso l’esperimento fu svolto quasi in maniera improvvisata e non vi furono risultati scientifici di rilievo, nonostante i protagonisti venissero controllati giorno per giorno da un equipe medica, con prelievi del sangue, controllo delle urine, della pressione e del sonno.
Di qui venne meno l’interesse delle istituzioni: Mecarozzi e gli organizzatori non ricevettero più alcun finanziamento e dovettero far fronte da soli a tutte le spese. L’Operazione Atlantide si concluse quindi con un nulla di fatto se non il ricordo di quella che, agli occhi dei partecipanti, restò impressa come “una bella avventura”.
Pordenonese doc, classe 1992. Dottore di ricerca in Scienze storiche tra l’Università di Padova, Ca’Foscari di Venezia e Verona, mi piace pensarmi come spettatore di eventi che in un futuro lontano saranno considerati storia. Far conoscere al meglio e a quanti più possibile il nostro passato, locale e non, è uno dei miei obiettivi e come tale scrivo con passione per le mie amate Radici.
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