Oggi, nel nostro mondo fatto di musica, sport, divertimento e social network vediamo al storia come un qualcosa di pesante, relegato nei libri scolastici. Basta però pensarci: i nostri nonni, che oggi, bene o male, conosciamo e amiamo in quanto membri della famiglia, hanno vissuto il Fascismo e la Seconda guerra mondiale, e spesso abbiamo sentito parlare delle loro esperienze e della loro giovinezza all’epoca. A loro volta, nel loro status di nipoti, avranno sentito i loro nonni parlare della Grande Guerra, e questi ancora i nonni che hanno vissuto il Risorgimento, e via dicendo. La storia, vista così, sembra già più familiare, più vicina alla nostra quotidianità, tanto da poterla immaginare molto chiaramente: pensare che un nostro antenato era in un determinato luogo in un determinato momento storico ci fa sentire come se anche noi fossimo stati protagonisti. In fondo siamo sangue del loro sangue.

Immaginiamo ora di essere i nostri bis-nonni che ascoltano il racconto di fatti che per loro potevano essere vicini ma che per altri sembrano ormai sepolti nel tempo. Non una storia generale, scritta e studiata, ma una storia di vita vissuta, particolare. Cosa avrebbero raccontato? Senza dubbio del lavoro nei campi, delle bevute in osteria, degli amici, del fatto che ogni giorno passava uguale all’altro. Ora immaginiamo di porre una seconda domanda: com’era Pordenone? A fare una foto, in pieno 1800, si sarebbe vista l’aperta campagna circondare il vecchio borgo medievale, sullo sfondo delle Prealpi. Mancavano i moderni palazzi, ma anche simboli ed edifici che oggi si pensa essere lì da molto tempo. Non esisteva una piazza XX Settembre, nemmeno un campanile di San Giorgio, neppure i sampietrini che oggi caratterizzano Corso Vittorio. Certo, esistevano il Duomo e il campanile, il convento di San Francesco, come pure la loggia del municipio e il ponte di Adamo ed Eva, simboli questi di un passato medievale. Le mura erano ancora ben visibili e l’edificio che ospita l’attuale biblioteca civica era un lascito dell’era moderna. Cosa allora di originale dell’epoca? Curiosamente proprio la stazione e la ferrovia, inaugurata nell’aprile 1855, simbolo di una rivoluzione, quella del ferro, che stava dilagando nell’Europa di metà ‘800.

Chi sarà stato presente all’inaugurazione? Forse i nostri succitati antenati con le loro conoscenze. Chissà, magari erano venuti portandosi dietro un loro amichetto. Magari all’inaugurazione avranno assistito assieme a un ragazzino poco più che quindicenne, Enea Ellero, lo stesso oggi ricordato nell’omonimo piazzale, protagonista solo cinque anni dopo della spedizione dei Mille di Garibaldi. Avranno sicuramente visto una bandiera differente sventolare all’ingresso della stazione al fianco di quella civica, con due bande orizzontali nera e gialla, a indicare che lì non era Italia ma Austria. Un’Austria imperiale, dove regnava l’imperatore Francesco Giuseppe (oggi ancora conosciuto come Checco Beppe), che pure visiterà Pordenone due anni dopo assieme alla principessa Sissi. Non doveva essere un governo congeniale se nel 1859 il comune si rifiuterà di pagare la somma di 82.000 fiorini per le spese di guerra dell’Impero, tantomeno se nel 1860 una delegazione di cittadini consegnerà a re Vittorio Emanuele i risultati di un sondaggio cittadino che chiedeva l’unione con il Piemonte. Vi era voglia d’Italia, non d’Austria.

E l’Italia arrivò: nel 1866 Pordenone, a seguito del plebiscito, votò l’annessione con 2.035 voti favorevoli e nessuno contrario. A novembre vi fu la visita del Re e quattro mesi dopo dello stesso Garibaldi, che soggiornò ospite del primo sindaco italiano in Palazzo Candiani. Entrambi furono festosamente accolti dai pordenonesi, e ancora oggi onorati in Corso Vittorio Emanuele II e Corso Garibaldi. Ci si emoziona a pensare che qualcuno dei nostri antenati possa aver assistito a quegli eventi; è un po’come se noi fossimo stati presenti. E forse è questo il bello della storia.

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