Come ogni anno a metà della Quaresima si è ripetuto in Piazza XX settembre a Pordenone il tradizionale appuntamento che prevede il processo e il rogo della Vecia. Evento che attrae e porta in piazza le diverse generazioni, costituisce un perfetto esempio di sopravvivenza di antichissimi riti che, attraversando i secoli e accumulando significati su significati, giungono a noi oggi ancora carichi di un ancestrale carica emotiva.
Molti si potrebbero chiedere che significato possa avere bruciare il fantoccio di una vecchia nel 2015 e potrebbero rimanere stupiti nel momento in cui vengono a sapere che questo rito fu riportato in auge solo nel ’73. Molti si potrebbero persino chiedere che senso avessero questi riti in passato.
Le spiegazioni riguardanti l’origine e il significato di riti di questo tipo sono diverse e molteplici. Sicuramente dietro a questi roghi rituali, compiuti in momenti abbastanza significativi dell’anno – in questo caso attorno all’inizio della primavera, nel caso dei falò epifanici in coincidenza del solstizio d’inverno – vi sono stratificazioni storico-religiose che dal paganesimo passano per la caccia alle streghe e che in generale hanno a che fare con riti campestri legati al ciclo annuale delle colture.
Per un classicista come me riti come questo fanno venire in mente i Fescennini romani, il processo al coltello sacrificale nell’antica Atene, ma anche festività celtiche che oggi sono diventate mainstream sotto la forma commerciale di Halloween. In ogni caso si tratta di riti che sono legati a tre aspetti molto cari ai nostri antenati ma che indubbiamente hanno e devono avere significato anche per noi.
In primo luogo queste festività popolari seguono lo schema antropologico del capro espiatorio. La Vecia, così come il coltello sacrificale in Atene, il capro ebraico, e persino Gesù Cristo sono coloro che attraggono su di sé i mali di una comunità e vengono condannati dalla stessa con l’intento di arrivare a una purificazione.
Alla purificazione rituale della comunità è legato anche l’aspetto satirico che il rogo della Vecia mostra. Sbandierare pubblicamente una volta l’anno gli errori compiuti dalla comunità e dai suoi amministratori, nella cornice controllata e ironica di un processo inscenato e farsa come quello all’innocente Vecia permette alla comunità stessa di guardarsi allo specchio e riflettere sugli accadimenti. Questo porre il sé fuori di sé, questo potersi guardare dall’esterno ricorda molto lo specchio di Dioniso e la catarsi che sta alla base della tragedia antica, la quale aveva infatti anche e soprattutto carattere purificatorio.
Simili riti però non hanno lo scopo solo di eliminare i mali, ma anche di propiziare la rinascita dalla natura e degli uomini. Bruciare le sterpaglie, bruciare ciò che durante l’inverno è morto, bruciare ciò che è vecchio, appunto come la Vecia, permette, nel mondo agreste, la concimazione dei campi e quindi la rinascita di nuova vita. Quest’idea, applicata al contesto di una comunità, che è, per altro, a metà del percorso quaresimale, assume per traslazione il significato della rinascita della vita civile e della fertilità non solo dei campi, ma anche dei cuori, delle menti e, perché no – è inutile nascondersi dietro alle dita -, anche degli uteri dei componenti della comunità stessa.
Da ieri la nostra comunità è purificata per un altro anno. Ora possiamo tornare a compiere gli stessi errori, consapevoli che ci sarà un altra Vecia il prossimo anno che se li porterà tutti via.
Nato negli USA, da sempre vivo in Friuli. Laureato in Lettere Classiche, sono laureato in Filologia Classica presso il Collegio Superiore dell’Università di Bologna e in Studi Interdisciplinari Europei al Collegio d’Europa, campus di Natolin. Fieramente europeo, le mie giornate son in perpetua oscillazione tra Omero e il Manifesto di Ventotene. Opero giorno per giorno per costruire una nazione, un continente, una comunità che riconoscano il valore della cultura e che in essa si riconoscano.