Siamo ormai stanchi del viaggio verso Venezia e piuttosto che continuare il lungo tragitto via mare che ci separa dalla Serenissima lasciamo il 1672. Certo, la voglia di vedere com’era la città lagunare del passato è tanta. Una gita a Venezia però si deve fare: sicuramente, tosto o tardi, ci andremo. Per ora decidiamo di cambiare decisamente aria: la nostra prossima destinazione temporale è fissata per la fine del ‘700.

E’ un’epoca questa molto pericolosa per la stessa Repubblica, ormai vecchia, statica e precaria nella sua esistenza. Una fragilità che però non dipende esclusivamente dalle questioni interne. Le grandi imprese della Serenissima, di cui siamo anche stati partecipi, ormai sono solo il lontano ricordo di una passata gloria: è come vedere una barca che, sospinta dal vento, poco a poco rallenta fino a fermarsi e ad affondare. Non saranno però né gli scogli né i tarli a fare buchi nello lo scafo.

E’ la mattina del 16 marzo 1797. Ci troviamo, come siamo stati soliti negli ultimi secoli, davanti alla Loggia del Municipio, in Contrada Maggiore. Ormai il futuro Corso Vittorio Emanuele è diventato quasi identico a quello che conosciamo oggi. I palazzi nobiliari più famosi e antichi sono del tutto simili agli attuali, solo che sulle facciate i colori, gli stucchi e gli affreschi sono più vivi e sgargianti, simbolo che i ricchi proprietari tengono ancora al prestigio loro e della loro famiglia. Alla nostra sinistra Palazzo Ricchieri è in assoluto il più bello: verrebbe voglia di entrarci per vedere gli interni. Purtroppo per noi non è ancora un museo.

Alla nostra destra invece Palazzo Spelladi (poi- Rorario- Silvestri) è del tutto simile ai giorni nostri: cambia il fatto che non vi sia, sotto il suo porticato, il Caffè Municipio. Al suo posto, dietro la fila di cinque archi acuti, vi è un luogo di ritrovo all’apparenza molto rinomato, quasi un antesignano del locale attuale. Il Caffè, già Caffè Vaticano, verrà inaugurato come “Municipio” nel 1870, nome diplomaticamente scelto in occasione della breccia di Porta Pia, avvenuta in quell’anno. Ancora oggi mantiene quel raffinato stile liberty ottocentesco che lo rende uno dei luoghi unici della città. Per esso, al momento del suo ampliamento, verranno demoliti due dei cinque archi del palazzo.

Rivolgendo la nostra attenzione alla strada, notiamo che una cosa non è cambiata: ancora non c’è la pavimentazione. Come durante il nostro viaggio nel 1318 stiamo camminando sulla nuda terra, anche se, bisogna ammetterlo, la situazione igienica è parecchio migliorata. La pavimentazione verrà fatta tra più di un secolo: in alcune foto di fine ‘800 vediamo per l’appunto che ancora essa non è presente. Siamo nuovamente fortunati: non sembra aver piovuto di recente, quindi non avremo problemi a sporcarci.

Decidiamo quindi di farci una nuova passeggiata in centro, simile a quella fatta nel medioevo. Osservando i palazzi alla nostra sinistra, l’occhio cade sui bellissimi affreschi di Palazzo Cattaneo-Mantica: rispetto allo stato di conservazione attuale, esso, analogamente a Palazzo Ricchieri, ha ancora nitidi molti disegni tra cui quello della scena di Milone dilaniato dal leone, anche se non sembra godere di una cura particolare poiché i colori sono sbiaditi. Ciononostante è ancora un palazzo vivo, curato e di bell’aspetto.

La cosa non ci darebbe più di tanto interesse se non fosse per un piccolo gruppetto all’ingresso. Ci avviciniamo: dalle armi che impugnano, delle baionette, sembrano essere tutti dei soldati, di cui due montanti la guardia all’ingresso. Dati i vestiti (una giubba blu che scende fino al ginocchio, con una fascia bianca diagonale che dalla spalla scende sul fianco, pantaloni bianchi, stivali grigi e un cappello nero con una coccarda tricolore) non ci sono dubbi circa la nazionalità: sono soldati francesi. La divisa è tipica dell’esercito della rivoluzione scoppiata in Francia solo otto anni prima.

Uno di loro sta tenendo in mano le briglie di un cavallo color grigio, elegantemente sellato. Sarà sicuramente di proprietà del loro superiore che probabilmente sarà dentro il palazzo. Giusto per curiosità ci avviciniamo e chiediamo loro, in francese, alcune informazioni: che ci fanno a Pordenone e chi stanno attendendo? Uno di loro ci risponde che stanno aspettando il loro generale per accompagnarlo alla battaglia. La battaglia? Stupiti dal fatto che non lo sappiamo il soldato ci fa sapere che nei pressi di Valvasone sono schierati oltre 40.000 uomini in attesa di dare battaglia agli austriaci. Per fare una proporzione basti pensare che la popolazione di Pordenone nell’anno in cui siamo è di circa 7.000 abitanti. Sorridiamo al pensiero che, in ogni epoca in cui ci spostiamo, gli austriaci siano, bene o male, sotto qualunque forma, sempre presenti.

Il soldato non fa in tempo a spiegarci la situazione che subito si mette sull’attenti. Dal portone d’ingresso del palazzo esce un giovane dai folti capelli, tutto impettito. Dall’aspetto avrà sui 27-28 anni. E’ vestito in maniera molto elegante: stivali neri, pantaloni bianchi, giubba blu come i soldati, finemente decorata con merletti e rifiniture d’oro. A fare da cintura, una vistosa fascia tricolore blu, bianca e rossa, da cui esce l’impugnatura di una spada, separa i pantaloni da una maglia blu scura tendente al nero abbottonata con bottoni anch’essi dorati. Sulla testa il giovane porta un cappello simile a quello dei soldati ma finemente rifinito in oro e con tre vistose piume a formare il tricolore. E’ la divisa tipica di chi sta al comando, il generale dell’armata che attende a Valvasone.

E’ sorprendente che a capo di un gruppetto di soldati ultra trentenni vi sia un ragazzo più giovane, come se non bastasse di statura più bassa. Appena uscito ci nota subito e squadratoci velocemente ci chiede in buon italiano, seppur con qualche sbavatura francese nella pronuncia, chi siamo e cosa vogliamo. Gli rispondiamo che siamo dei semplici passanti che chiedono informazioni. Il generale, che sembra avere una certa fretta, ci ripete quello che il soldato aveva fatto presente poco prima: in pratica siamo alla fine di quella che nella storia è conosciuta come Campagna d’Italia, al cui comando c’è un altro generale, come lui, il cui nome è simbolo di un’epoca, Napoleone Bonaparte.

Alla sua domanda se avevamo mai sentito questo nome, gli rispondiamo positivamente senza esitare. Bonaparte, il famoso generale, l’Attila della Repubblica di Venezia come sappiamo si era definito da sé: come possiamo non conoscerlo? Evitando di rivelare il suo futuro prossimo, gli chiediamo se lui, in quanto suo collega e compagno d’armi, gli avesse mai parlato o stretto la mano o lo conoscesse direttamente: d’altro canto dovrebbe essere proprio in Friuli al momento. Sarebbe troppo bello sapere che magari è vicino, pur non avendo occasione di incontrarlo; è pur sempre un’opportunità per conoscere qualcosa in più su questo “piccolo” generale. Annuendo e sorridendo divertito, ci risponde: “C’est moi!”.

Indossato il cappello e montato a cavallo, ci fa cenno di saluto e in breve, con i suoi soldati, scompare in direzione della Loggia.

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