Quanto state per leggere non è un racconto di un fatto qualunque. O meglio, lo sarebbe se la vicenda non avesse avuto conseguenze importanti. Purtroppo quanto avvenne in quei giorni non poteva non passare sotto silenzio agli occhi e alle orecchie di chi viveva in quel periodo, infastidendo non poco anche chi in quel momento teneva in mano le redini della storia.
Primavera del 1797, aprile. Il Friuli, come pure il Veneto, era attraversato da un flusso continuo di truppe francesi e austriache in guerra tra loro. L’antica Repubblica di Venezia, ancora padrona del nord-est, rimanendo neutrale, aveva concesso loro di combattere sul suo territorio senza schierarsi con nessuno dei due contendenti. C’era troppo da perdere nell’entrare in un conflitto in cui essa era stata del tutto estranea sin dall’inizio.
Questi assembramenti di migliaia di uomini tuttavia comportavano un gran peso sull’economia e sull’agricoltura veneta e friulana: per essere efficiente un esercito in marcia costante aveva bisogno di essere rifocillato e mantenuto con qualunque mezzo, anche a scapito delle popolazioni locali. I soldati quindi non si facevano problemi a depredare gli abitanti delle campagne e non di rado erano protagonisti di ulteriori violenze, specialmente verso le donne.
Il 16 aprile 1797 un manipolo di sette soldati francesi uscì dalle mura della recentemente espugnata fortezza di Palmanova, strappata agli austriaci in fuga dinnanzi la prorompente avanzata dell’esercito rivoluzionario, per requisire presso i contadini dei dintorni tre-quattro carri di fieno da distribuire ai cavalli della truppa presente nella città. Giunti vicino a Castions di Strada, a Bagnaria Arsa, essi vennero avvistati da un gruppo di donne le quali, avendo ben nota la fama dei francesi, corsero in paese a dare l’allarme. Non ci volle molto: in brevissimo tempo tutti gli uomini abili si armarono con quanto avevano (schioppi, pistole, forconi, bastoni) e si diressero verso i francesi, assalendoli nei pressi dell’abitato.
Una sollevazione, seppur piccola, contro l’esercito rivoluzionario da parte di una popolazione locale fino a quel momento non si era mai vista. Dopo un breve scontro a fuoco, i francesi ebbero la peggio: tutti e sette vennero catturati e, circondati dalla folla, disarmati, malmenati e ingiuriati, vennero condotti davanti alla chiesa, alla presenza del cappellano del paese. Quest’ultimo chiese loro i documenti per accertarsi della loro identità: non capendo la loro lingua e non essendovi interpreti per avviare una trattativa, egli prudentemente consigliò i paesani di non commettere altre violenze nei loro confronti poiché probabilmente ciò avrebbe provocato un’inevitabile rappresaglia.
Ciò comunque non bastò, i castionesi volevano in ogni caso dare una bella lezione ai francesi: li rinchiusero in una casa fino al calar del sole per poi scortarli a Torre di Zuino (attuale Torviscosa), al confine con l’Austria, lasciandoli poi liberi. I sette, non avendo conoscenza del territorio, vagarono letteralmente senza meta finché, nei pressi di San Giorgio di Nogaro, grazie alle indicazioni di un contadino, riuscirono a trovare la strada per Palmanova, giungendovi a notte fonda in stato pietoso.
Il giorno seguente un nuovo manipolo di soldati si diresse a Bagnaria con lo stesso proposito del manipolo precedente: anche in questa occasione vennero circondati dagli abitanti infuriati ma, diversamente dai loro commilitoni, essi prudentemente decisero di fare marcia indietro tronando a Palmanova sani e salvi. Si era creata una situazione senza precedenti: mai l’esercito della Francia rivoluzionaria era stato così umiliato, per di più in due occasioni consecutive. Agli occhi delle alte sfere francesi era quindi necessaria una violenta rappresaglia nei confronti degli abitanti.
I generali Guillaume e Baraguey d’Hilliers, di stanza a Palmanova, pensavano di dare alle fiamme l’intero villaggio di Castions, così da dissuadere altri dall’imitare gli azzardi dei suoi abitanti. Un’iniziativa così eclatante che il Senato veneziano, venutone a conoscenza, tentò di evitare: allo scopo di allentare la tensione e per evitare eccessivi fastidi che avrebbero potuto mettere in discussione la neutralità della Serenissima, da Venezia venne inviato un apposito commissario con l’incarico di requisire tutte le armi del paese e di arrestare quattro dei principali responsabili della rivolta, poi tradotti nelle carceri di Udine. Ai francesi però questo non bastava: volevano di più, volevano che gli venissero consegnati cinquanta prigionieri più il cappellano, il cui destino finale era la fucilazione. E se ciò non fosse avvenuto si sarebbe provveduto ad incendiare immediatamente i villaggi interessati.
In questa situazione ogni speranza di salvare Castions sembrava perduta, ma la soluzione era dietro l’angolo. La moglie del luogotenente veneziano del Friuli, Alvise Mocenigo, si diresse a Gemona a incontrare quella del generale d’Hilliers, raccontandole gli ultimi fatti del villaggio friulano affinché mediasse con il marito per trovare un accordo. Cosa che avvenne: il generale concesse al luogotenente di informare il Senato delle sue richieste e di attenderne le decisioni. Venezia rispose prontamente e il 26 aprile diede mandato a Mocenigo di punire buona parte dei rivoltosi con la reclusione nelle carceri, individuando altri tre corresponsabili oltre ai quattro già noti.
Tutto ciò però non sarebbe mai avvenuto: il 3 maggio, proprio da Palmanova, il generale in capo delle armate francesi in Italia, Napoleone Buonaparte, già da tempo ostile alla Serenissima, citando e gonfiando, tra tutti, l’episodio di Castions, dichiarò guerra alla Repubblica che, dopo poco più di due settimane, cessava di esistere. La delibera contro i castionesi era quindi rimasta lettera morta e i francesi rinunciarono a qualsiasi rappresaglia contro di essi. E i quattro arrestati e detenuti a Udine? Di loro non si seppe più niente: molto probabilmente, nel trambusto degli ultimi giorni della Serenissima, essi riuscirono in qualche modo ad evadere di prigione, salvandosi la vita.
Per approfondire suggerisco la lettura di Adriano Del Fabro, Criminali, sommosse e delitti del Friuli, Demetra, Udine 2000.
Pordenonese doc, classe 1992. Dottore di ricerca in Scienze storiche tra l’Università di Padova, Ca’Foscari di Venezia e Verona, mi piace pensarmi come spettatore di eventi che in un futuro lontano saranno considerati storia. Far conoscere al meglio e a quanti più possibile il nostro passato, locale e non, è uno dei miei obiettivi e come tale scrivo con passione per le mie amate Radici.