Mi ritrovo nuovamente a scrivere di cinema italiano contemporaneo, ma soprattutto di cinema politico. Sembra quasi che stia crescendo una nuova primavera per il genere, che ha espresso i suoi migliori colpi a cavallo degli anni ‘70/’80 con le pellicole di Petri, Amelio, Rosi, per citarne alcuni.
Rientra di diritto in questo filone La trattativa di Sabina Guzzanti, la “Michael Moore italiana” che con il suo quarto film da regista torna ad esplorare le magagne della nostra politica. Grazie ad un parterre di attori di primo ordine, su tutti Ninni Bruschetta, e alla ugualmente riconoscibile fotografia di Daniele Ciprì, la Guzzanti realizza la sua opera più sperimentale e forse la più riuscita. Racconta, attraverso l’alternanza di fiction e documentario, la trattativa che a metà degli anni ’90 lo Stato intraprese con la malavita nello specifico la Mafia dei vari Bruschetta e Riina. E così scorrono volti noti e schifosamente sempre presenti nelle pagine più nere della nostra Storia, e i collaboratori di giustizia a cui, con le dovute precauzioni, tanto dobbiamo.
Si è parlato di un Dogville italiano, di una ricostruzione della cronaca volutamente artefatta, l’unica forma possibile per rendere il tutto “credibile”: la verità è camuffata dalla fiction, rivendicazione dichiarata fin dall’inizio, perché ricomponendo i pezzi e reinterpretandoli, si vorrebbe far passare il vecchio concetto che “la realtà supera la fantasia”. Sia chiaro, questa volta la Guzzanti non ci rivela segreti clamorosi, se non alcune indagini e incontri, ma la dobbiamo ringraziare per aver realizzato La trattativa anche solo per il fatto che farà incazzare più di qualcuno. Si dice spesso che in momenti di crisi gli artisti rivelano i loro lati migliori, così è per la Guzzanti che i aiuta a renderci conto che è ora di farci sentire con i fatti. La trattativa ci sveglia e ci insegna a non fidarci di nessuno, sembrerà poco ma non è mai una cosa scontata.

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