Un edificio giallo, rialzato rispetto alla strada, dietro alte mura rosa compare sopra il Tribunale. La sua forma lo fa apparire come una vecchia palazzina realizzata chissà quanto tempo fa. Le pareti esterne, screpolate e scolorite, e le finestre con le sbarre non suscitano particolare simpatia a chi ci passeggia sotto: danno il senso del degrado e dell’abbandono. L’attuale carcere di Pordenone, del resto, è famoso per non essere un edificio accogliente.

Se non fosse per il fatto di essere stato un tempo un castello medievale, alle nuove generazioni, compresa quella di chi scrive, non verrebbe mai da associarlo immediatamente a questa forma. Eppure, quell’edificio è lì da più di settecento anni e non aveva affatto l’aspetto che ha oggi.

Le origini del castello di Pordenone si perdono tra innumerevoli cronache e interpretazioni documentarie ed archeologiche. Menzionato la prima volta in un atto scritto nel 1273, i lavori di costruzione iniziarono per volontà di Filippo, vescovo di Salisburgo candidato al titolo di Patriarca di Aquileia, intenzionato a far valere i suoi diritti di candidatura su un rivale preferito dal papa. La contesa non si concluse a suo favore ma la struttura venne comunque realizzata, diventando proprietà di feudatari del territorio legati agli Asburgo. Sorgendo su un’altura a oriente dell’abitato, circondata su tre lati dalla roggia dei Mulini, posizione che univa difesa e prestigio, la proprietà passò di mano in mano diventando la sede dei capitani rappresentanti l’autorità del duca austriaco.

Dopo la parentesi di Bartolomeo D’Alviano, dal 1537 al 1797 Pordenone fece parte della Repubblica di Venezia. La Serenissima governava la città e i suoi borghi attraverso un provveditore e un capitano scelti tra i patrizi del Maggior Consiglio. Come per l’epoca austriaca, così anche in quella veneziana il capitano risiedeva nel castello.

Con il lungo periodo di pace garantito da Venezia, il castello perse la funzione militare. I merli vennero chiusi, il ponte levatoio che lo collegava alle mura smantellato, le fortificazioni abbandonate. Divenne un luogo civile, sede di uffici e prigioni. Giovan Battista Pomo, nei suoi Comentari urbani, racconta due episodi che ne rivelano la nuova natura: nel 1731 gli abitanti, stanchi di diversi abusi compiuti dalle guardie, vi irruppero; trent’anni più tardi alcuni prigionieri riuscirono a fuggire, scatenando il panico.

Alla fine del Settecento il complesso, pur degradato, conservava imponenza: il mastio quadrato al centro, torri e fabbricati uniti da mura parzialmente rovinate. Vi trovavano posto la cancelleria, la camera dei “presentadi” — una sorta di corpo di polizia —, la prigione e una chiesa, prima dedicata a San Cristoforo e poi ai Santi Filippo e Giacomo.

Il 1797 segnò la svolta. Crollata la Serenissima, Pordenone fu occupata dalle truppe francesi e il castello incendiato “in odio ai rappresentanti veneti”. Seguirono passaggi di potere: gli Austriaci nel 1798, i Francesi di nuovo nel 1805, e poi ancora gli Austriaci. Il degrado si fece drammatico. Nel 1810 il podestà lo definiva “mucchio di sassi”, saccheggiato per ricavarne materiale edile.

Poco dopo, il notaio Antonio Rossi lo acquistò dal Demanio napoleonico per sessantamila lire, sperando di restaurarlo e ricavarne abitazioni e uffici. L’impresa lo rovinò al punto che nel 1817 subì il pignoramento di tutti i beni. Durante la Restaurazione austriaca, il castello ospitò carceri, magazzini del sale e persino una sala da ballo, ma la struttura continuò a deteriorarsi.

Nel 1843 il Comune dichiarò il castello inagibile. Le mura, ormai screpolate e stanche, sembravano incapaci di reggere il peso dei secoli. Qualcuno, nel 1847, pensò di ridargli vita: l’ingegnere Lucio Poletti ricevette l’incarico di progettare una ristrutturazione che avrebbe dovuto ospitare uffici e prigioni. Ma l’idea rimase solo sulla carta. L’unica parte salvata fu quella destinata ai detenuti, e nel 1848 partirono lavori di restauro, più per necessità che per ambizione.

Tre anni dopo, nel 1851, si accese una nuova speranza. La Presidenza del Tribunale di Udine propose di restaurare il castello per farne sede della magistratura e della Procura di Stato. Il Comune accolse l’iniziativa con entusiasmo: si parlò di restituire dignità a un edificio “legato alla storia antica del paese”. Ma anche questa volta l’entusiasmo si spense presto. Il progetto non vide mai la luce.

Gli anni seguenti furono un lento declino. Crolli, segnalazioni, rimpalli infiniti tra il Comune e le autorità austriache. Nel 1861, un’ispezione rivelò danni gravi: infiltrazioni d’acqua e il continuo lavorìo della roggia dei Mulini stavano minando le fondamenta stesse del colle.

Poi venne il 1866. Con l’annessione al Regno d’Italia il castello cambiò padrone ma non destino. Nel 1871 le carceri pretoriali divennero circondariali. Il Comune, divenuto responsabile della manutenzione, promise di mantenerle “in stato lodevole”. Promessa difficile da mantenere: già l’anno successivo il Genio Civile suggeriva di costruire un nuovo carcere “a sistema cellulare”, più moderno, più razionale. Ma i soldi non c’erano, e il progetto finì nel cassetto.

Si continuò allora con rattoppi e piccoli interventi. Nel 1879 il Ministero dell’Interno autorizzò nuovi lavori, ma ancora una volta i costi si rivelarono insostenibili. Solo nel 1883 si prese una decisione definitiva: trasformare l’intero complesso in un carcere giudiziario propriamente detto. I lavori furono affidati a Giovanni Zannier di Pinzano al Tagliamento, poi completati nel 1887 da Francesco Santin di Azzano Decimo. Costarono oltre novantamila lire — una cifra considerevole per l’epoca.

Arrivato così al Novecento, il castello di Pordenone non era più un castello, almeno non nel senso antico del termine. Era una prigione moderna, funzionale, ma privata dell’anima che aveva avuto per secoli. Da rocca veneziana a rudere, da sede di magistrature a carcere, e infine da carcere ottocentesco a edificio fuori tempo.

Ci sarebbe voluto quasi un secolo prima che qualcuno pensasse a costruire una nuova struttura penitenziaria. Ma l’inerzia, la mancanza di fondi e le incertezze amministrative bloccarono ogni tentativo. Così, ancora oggi, in attesa che il nuovo carcere di San Vito al Tagliamento sia completato, il vecchio castello — inadatto, scomodo, ma resistente — continua, quasi per ostinazione, a fare il suo mestiere di prigione.


Per approfondire:

  • Matteo Gianni, Il destino di un maniero. Storia del castello di Pordenone tra XVIII e XIX secolo, in “Atti dell’Accademia San Marco di Pordenone”, 13-14 (2011-2012), pp. 77-110 (disponibile qui)
  • Enzo Marigliano, Il castello di Pordenone, Edizioni L’omino rosso, Pordenone, 2023.