E’ il 1966 e nessuno osa parlare di apertura e dialogo. La Guerra Fredda imperversa. Il confine Italia – Jugoslavia è tra i più “caldi”. Le due guerre mondiali hanno stravolto quel tessuto unico di rapporti, valori e tradizioni creatosi sotto l’egida dell’Impero asburgico. Di quel centro Europa un tempo unito, di quel sogno mitteleuropeo nato nella corte viennese e fiorito a Trieste, di quel crogiulo di culture ed etnie nulla rimane. Niente di quel sapere che in ogni ambito aveva raggiunto vertici altissimi: Wittgenstein, Schönberg, Kokoschka, Rilke, Kafka, Zweig, Svevo e Roth. Odio e divisione, i frutti della guerra, serpeggiano tra popoli un tempo fratelli. E anche nella mia famiglia: un padre sergente nell’esercito austriaco, un figlio soldato in quello italiano. Gorizia è la città simbolo di questa spaccatura. Nova Gorica le si oppone oltre confine, due sorelle brutalmente opposte. Eppure proprio qui qualcosa sta cambiando. Il desiderio, anzi la mancanza di quel dialogo così fecondo, di quella fratellanza così stretta, di quella radici così comuni acquista voce nella rivista Iniziativa isontina, così come nelle riunioni di intellettuali, amministratori pubblici e imprenditori presso i Padri Gesuiti della “Stella mattutina”. Sta per nascere qualcosa di unico.

Con l’aiuto del sindaco Michele Martina e di Mario Luzi e Biagio Marin, poeti e intellettuali affermati, si organizza un primo convegno per il dialogo transfrontaliero. Le questioni politiche ed economiche sono messe al bando: i governi dei paesi sovietici guardano all’iniziativa con timore, la osteggiano. Per questo viene scelto un tema apparentemente neutro: si parlerà di poesia. Oltre alla componente italiana, partecipano intellettuali dal mondo slavo e germanico. Giuseppe Ungaretti accetta di tenere il discorso inaugurale. Per l’occasione ritorna nel suo Carso, rivede San Martino e lascia una testimonianza indelebile:

«Il nome di Gorizia non era il nome di una vittoria, non esistono vittorie sulla terra se non per illusione sacrilega, ma il nome di una comune sofferenza, la nostra e quella di chi ci stava di fronte e che dicevamo il nemico, ma che noi, pur facendo senza viltà il nostro cieco dovere, chiamavamo nel nostro cuore fratello»

Dopo questa prima esperienza è nato l’Istituto per Incontri Culturali Mitteleuropei di Gorizia, che da 50 anni si preoccupa di portare avanti il dialogo tra Est e Ovest, tra mondo slavo, latino e germanico, tra minoranze e maggioranze. Anche in seguito alla caduta del Muro di Berlino e di ogni barriera, anche con la fine dell’URSS e della Guerra Fredda, l’Istituto ha continuato nella sua attività: un convegno annuale, cui via via si sono aggiunti seminari di studi, mostre e iniziative collaterali come il Festival Musicale Mitteleuropeo.

Ancora oggi, proprio nel centenario di quello che Stefan Zweig ha definito «il suicidio dell’Europa», l’ICM propone una certa idea di confine, che travalica la netta linea di demarcazione e si lascia andare alla bellezza dell’incontro, nel segno di una comunanza di destini che da sempre unisce le nostre genti. Oltre le separazioni della politica, la cultura e ancor più le tradizioni ci fanno riscoprire uniti. Era il 1966 e nessuno osava parlare di apertura e dialogo. O forse no.

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