Oggi, a Pordenonelegge, l’architetto Raul Pantaleo ha presentato il libro “La sporca bellezza”. Alla base della presentazione l’importanza di vedere l'”architettura come arte eminentemente sociale“, come l’ha definita l’autore, un’architettura che si mette a servizio.

Il libro descrive il progetto, realizzato in collaborazione con Emergency, che punta alla realizzazione di edifici efficienti, utili ed esteticamente apprezzabili in quei luoghi considerati “periferie del mondo”. L’obiettivo è sottolineare la capacità dell’architettura all’interno di realtà così estreme.

Pantaleo traduce l’insolito titolo del suo libro con un concetto che, di fatto, domina le pagine, ossia quello di “bellitudine”. Con questo termine l’autore vuole indicare una bellezza sporca, pragmatica, fuori dai canoni, una bellezza di cui è l’architetto ad essere depositario.

La collaborazione con Emergency, da cui deriva il suddetto progetto, parte dal presupposto che l’individuo e la sua dignità devono essere posti al centro. Per poter realizzare un edificio, soprattutto in condizioni così precarie e difficoltose, l’architetto deve mettersi nei panni del futuro fruitore ed interrogarsi su come la struttura ultimata verrebbe percepita dallo stesso. La bellezza estetica non è secondaria all’efficienza e alla funzionalità degli edifici all’interno di questi contesti. Anzi, diviene quasi parte integrante della struttura.

Il pragmatismo, “la bellitudine”, che risulta essere protagonista in questi frangenti, contribuisce a far percepire la vera essenza delle cose, nonostante gli svantaggi che la precarietà in cui è necessario operare comporti. La carrellata di esempi che Pantaleo porta all’attenzione del lettore fanno sì che si possa comprendere quanto un elemento che potremmo considerare banale, come un muro dipinto in rosso fra tanti altri grigi, possa essere fondamentale per dare nuova vita ad intere aree.

Avviandosi verso la conclusione, l’architetto si lascia andare ad una riflessione. Parla di sé, del suo lavoro e di quello dei suoi colleghi e si autodefinisce come pezzo di un processo, dotato di una propria autonomia. Sostiene anche di poter essere visto come l’interprete di una partitura, fatta da realtà diverse, da persone e dal fatto di essere in risonanza con il fattore economico. Dice: “Siamo interpreti di sogni e realtà. Questi edifici hanno parlato a persone, a pazienti, ma anche a giurie internazionali, altrimenti non si sarebbe passati attraverso i continenti“. E termina con un messaggio che sa di speranza: “Gli edifici ( che abbiamo realizzato in questi luoghi) mostrano il volto di un futuro sorridente, lasciano guardare anche a quei luoghi in modo sorridente”.