“A Tricesimo e nelle ville vicine, molti sussurravano e qualche volta lo dicevano anche a voce alta. Toni Menot, poco più che ragazzo, alto, asciutto, con folti capelli neri e ricciuti, aveva malamente risposto al Conte Valentinis, per una cesta di biada non proprio colma. Probabilmente Toni Menot si era stupito per il suo ardire, ma ancor più lo aveva stupito il lampo di paura che era passato sul volto del Conte. Quel giorno, nel cortile del castello, da segni incerti e tenui, capì che la sua vita sarebbe cambiata.”

Perché quest’uomo è più ricordato rispetto ai suoi compari? Perché è forse l’unico personaggio di quell’epoca di cui ancora qualche raro anziano del posto parla ai propri nipoti? La sua fama si deve indubbiamente anche al suo temperamento: egli era infatti un uomo molto coraggioso e, per ovvi motivi, era molto temuto e rispettato. Tuttavia, il vero motivo che rende Toni così famoso è il fatto che si rese protagonista di alcuni episodi che rimasero a lungo nella bocca della gente locale. Ebbe infatti il coraggio di rispondere male al Conte de Valentinis, signore feudale del territorio, accusandolo di far patire la fame al popolo e rimase nella storia come una sorta di “ladro gentiluomo”. Questa fama, però, non era condivisa dalle truppe austriache e veneziane.

Dopo un’eroica fuga e resistenza, fu infine catturato dai soldati della Serenissima e gettato nelle segrete del castello di Udine, dove venne torturato e condannato all’impiccagione. La leggenda dice che il suo cadavere fu trascinato da Udine a Tricesimo, nel villaggio di Adorgnano (dove si trovava la sua base operativa), e fu appeso ad una forca come monito, fino alla putrefazione. Nonostante questo, egli è ancora ricordato così:

“Toni Menot, el brigant, al robave ai siors par no fa muri la int di fan.”(Antonio Menot, il brigante, rubava ai signori per non far morire di fame la gente.)

Per concludere, parliamo invece di una tradizione del paese, ormai andata perduta, che aveva luogo nei primi giorni di novembre, per la ricorrenza dei defunti. In tali giornate i tricesimani solevano lasciare in tavola o sul davanzale un po’ di polenta concia e di acqua, per permettere ai defunti di passaggio di potersi sfamare e dissetare. A rendere ancora più singolare questa usanza, stava la credenza che i defunti già “sistemati” all’Inferno o in Paradiso non avessero bisogno di questi doni, in quanto non sofferenti né di fame né di sete. Il gesto era quindi rivolto alle anime sperdute del Purgatorio, in attesa del giudizio finale.

 

(Photo by: Gastaldia de Tricesimo – Pagina FB)

 

Tricesimo: contrada contesa e dominio di contrabbandieri – Prima parte

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