“Parla come mangi” è un modo di dire di vecchia data. Lo si usa per rimproverare qualcuno che parla in modo pomposo e difficile quando non è necessario, per invitarlo ad esprimersi in maniera semplice, com’è semplice il modo in cui mangiamo abitualmente.

Tutto ciò ha perfettamente senso: perchè darsi troppe arie con il latinorum, quando si sta parlando del rigore non dato durante l’ultima partita della squadra di paese?
Un tempo chi veniva rimproverato con tale espressione subito abbassava la cresta, rendendosi conto di aver esagerato con la retorica. Infondo il richiamo alla cucina semplice non lasciava scampo, era la dimostrazione evidente che davanti a un piatto di pasta e fagioli siamo tutti uguali.

Oggi la stessa espressione è tuttavia messa a dura prova.

Primo, perchè quasi tutti ormai parlano in modo molto più complicato di quanto richieda il contesto. Sia perché il linguaggio tecnico sta sempre più entrando a far parte del registro comune, sia perché i forestierismi mantengono ancora quell’aurea dotta che li ha sempre contraddistinti, sta di fatto che chiunque può improvvisarsi esperto cimentandosi in discorsi illuminanti su qualsiasi questione, forte del suo vocabolario 2.0.

Ma soprattutto perché oggi nessuno mangia più in maniera semplice, almeno nel senso in cui lo si intendeva una volta. L’abitudine odierna è infatti quella di passare da un estremo all’altro: un giorno mangiamo dello stracotto selvatico agli aromi di bosco su torta fragrante di mais (alias spezzatino con polenta), il giorno dopo andiamo al Mc Donald’s in pigiama, per garantirci 24 mocaccini con ciambella.  Facendo un po’ di attenzione ci si accorge di come entrambe queste abitudini siano in realtà semplicissime a livello alimentare. Non sono infatti piatti ricercati, impegnati o sperimentali, anzi. Ciò che le rende speciali sono rispettivamente un nome altisonante e una felice strategia di marketing. Ciò che non è semplice è il modo in cui ci si approccia a queste pietanze, la convinzione che una descrizione particolare o un marchio familiare rendano un prodotto buono e salutare, d’elìte nel peggiore dei casi.
Accade così che per assurdo, per mangiare un piatto di gnocchi al ragù d’anatra fatti come Dio comanda, siamo costretti ad andare al ristorante, dove, nella maggior parte dei casi, il prezzo non è tanto semplice quanto la nostra scelta, per quanto abbia soddisfatto la nostra voglia di mangiare bene.

Il risultato è così la perdita della cucina tradizionale e dei suoi valori, delle sue abitudini e dei suoi modi. Il risultato è insomma la perdita della semplicità, del vivere genuino, sostituiti da un surrogato fatto di apparenza e opportunismo.

Per questo motivo non possiamo più rimproverare chi si atteggia a retore con un sano “parla come mangi!”, perché quella persona parla già come mangia.

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