Marzio Breda, quirinalista per eccellenza, ha ricordato come, nel messaggio per l’inaugurazione di Pordenonelegge 2025, Sergio Mattarella veda nella letteratura una condizione della libertà. Una frase che sembra scritta apposta per la parabola di Sandro Pertini, la cui vita non fu mai un’esegesi del socialismo astratto, ma una costante incarnazione del valore più alto: la libertà.
Un sondaggio Doxa del 2000 rivelò che, per gli italiani, il personaggio del Novecento che aveva lasciato il segno più profondo era proprio lui. Non stupisce: da presidente, Pertini divenne familiare al Paese come pochi altri. La sua forza nasceva dalla coerenza di una vita intera.
Nato in una famiglia benestante della Liguria, figlio di un avvocato possidente, scelse presto un socialismo riformista, democratico, irriducibilmente antifascista. Pagò ogni scelta: confino, esilio, condanna a morte. Non piegò mai la schiena. Aveva già mostrato un coraggio fisico in trincea, nella Grande Guerra, dove guidò i suoi uomini all’assalto di una postazione austroungarica. Lo confermò nel 1943, difendendo Roma, e poi alla testa della Resistenza. Quando il fascismo cadde, la sua autorevolezza morale era ampiamente riconosciuta.
Deputato all’Assemblea costituente e parlamentare, non cercò mai ministeri o cariche di potere. Per lui la politica era servizio, e come tale la interpretò. Fu questa credibilità a farne, nel 1978, la figura di prestigio e decoro cui il Parlamento si affidò dopo il trauma del caso Moro e le dimissioni anticipate di Leone. Eletto Presidente della Repubblica, fu subito il più amato: persino Almirante, che non lo aveva votato, ammise di essersi trovato costretto ad applaudirlo.
Pertini non fu un capo dello Stato come i predecessori, gli “italianastri” chiusi al Quirinale. Con lui cominciò la stagione delle esternazioni e del dialogo diretto con i cittadini. Parlava semplice, parlava come loro. Il Times spiegò così la sua popolarità: gli italiani, stanchi del linguaggio da anime morte dei politici, si sentirono finalmente rappresentati da parole che risuonavano familiari e quotidiane.
La sua intransigenza morale non conobbe pause. Da giovane ufficiale era in procinto di ottenere la medaglia al valore, poi non consegnata perché socialista; da presidente, quando gli fu riproposta in pompa magna, rifiutò denunciandone l’ipocrisia. Sulle guerre non lasciava dubbi: “Si distruggano gli arsenali e si riempiano i granai”, amava ripetere. Allo stesso modo, non esitò a protestare duramente contro la dittatura argentina e i desaparecidos, anche a costo di irritare la Casa Rosada: per lui, la coscienza non si barattava.
Il rapporto personale con Giovanni Paolo II mostrò un altro tratto di Pertini: la capacità di unire semplicità e autorevolezza. Un socialista laico che sapeva sciare e ridere con il Papa e gli alpini in osteria, senza che la sua identità politica ne fosse intaccata.
Gli aneddoti abbondano: se Saragat era il presidente dei telegrammi, freddi e formali, Pertini fu il presidente dei sentimenti condivisi. Lo dimostrò nei momenti più duri, come il 2 agosto 1980, ai funerali delle vittime della strage di Bologna. Piazza Maggiore era tesa, pronta a esplodere in rabbia. Quando Pertini alzò la mano, calò un silenzio improvviso. Appoggiò la sua sul feretro di una vittima: il gesto simbolico di uno Stato che non si sottraeva al dolore del popolo.
Fu capace di scelte politiche coraggiose e imprevedibili. Dopo lo scandalo P2, incaricò Giovanni Spadolini di formare un governo, il primo laico della Repubblica. La DC e il PSI protestarono, ma Pertini, ancora una volta, seguì la propria bussola interiore.
Il suo settennato non solo rilegittimò le istituzioni, ma ridiede agli italiani un senso di fiducia. Con le sue esternazioni, i suoi discorsi di Capodanno rivoluzionari, i suoi gesti diretti, anticipò persino l’era dei social: un presidente capace di parlare senza filtri al cuore della gente.
A detta di Breda, Pertini resta uno dei pochissimi veri eroi che l’Italia può vantare. Non tanto per le cariche ricoperte, ma per aver vissuto la sua intera esistenza come un inno alla libertà, senza mai tradire sé stesso. E forse è questo il lascito più grande: l’idea che la politica, quando è servizio e coerenza, può tornare ad essere amata.
Pordenonese, classe 1992. Ho conseguito il dottorato di ricerca in Studi storici tra l’Università di Padova, Ca’ Foscari di Venezia e l’Università di Verona. Mi sono laureato a Ca’ Foscari con una tesi sul rapporto tra l’università veneziana e la Dalmazia, premiata dall’Ateneo Veneto nel 2020. Mi piace pensarmi come uno spettatore di eventi che un giorno saranno considerati storia. Per questo credo che raccontare e divulgare il passato sia una delle sfide più affascinanti. È anche il motivo per cui scrivo con passione per le mie amate Radici.