C’è una parte di Pordenone che vive più nel ricordo che nelle cartoline: una zona che sa di pietra consumata, di sere lente e di passi che rimbalzano tra le case. Piazza della Motta appartiene a questa categoria di luoghi che custodiscono più di quanto mostrino. Per decenni è stata un piccolo teatro quotidiano, dove il passato e il presente si passavano la palla come attori esperti. Al centro di quel palcoscenico, fino agli anni Sessanta, c’era un arco. Non un arco qualsiasi, ma “il nobile interrompimento” — un nome che già di per sé basterebbe a scrivere un romanzo.

E accanto a quell’arco, come un basso continuo che accompagna una melodia, c’era la Casa Vinicola Pavan: la cantina cittadina che per quasi un secolo ha riempito bicchieri, dispense, osterie e memorie. Una presenza discreta ma tenace, come sanno essere le realtà che non cercano applausi, ma durano perché trovano il modo di stare dentro la vita delle persone.
Questa è la loro storia. O meglio: è la storia di una città raccontata attraverso un arco scomparso, una cantina che ha cambiato forma e un’eredità che ancora cammina sotto traccia.

Immaginate Pordenone nei primi decenni del Novecento. Niente ancora a che vedere con l’energia industriale degli anni successivi; piuttosto un paesaggio fatto di botteghe, di mercati contadini, di cortili e di giorni che scorrevano senza pretese. In questo tessuto urbano nasce la Cantina Pavan, un’impresa locale che cresce piano, senza clamore, con la pazienza delle fermentazioni lente.

Era una cantina urbana — definizione rara già allora, quasi impensabile oggi. Significa vino dentro la città, non fuori: significa camion che arrivano tra le case, profumi che s’infilano tra i vicoli, rumori di lavoro che si mescolano alle voci dei passanti. Significa che il vino non era un prodotto da catalogo, ma un fatto sociale.
Casa Vinicola Pavan produceva vini da tavola sinceri, robusti, legati alle abitudini locali più che alle mode.
Nei magazzini della Motta non c’erano “botti industriali”: c’erano grandi recipienti di legno e cemento, colossi silenziosi che restituivano al vino un ritmo che oggi sarebbe considerato disobbediente. Non c’era fretta; non c’era marketing; c’era il mestiere. E intanto la città cresceva. Cambiavano i bisogni, cambiavano le strade, cambiavano le regole del muoversi. E così, piano piano, il destino della cantina e quello dell’arco finirono per incrociarsi.

L’arco della Motta — parte di un edificio secolare, il fabbricato Brusadin — era più di una struttura architettonica. Era un gesto della città. Un modo di dire: “qui le cose non scorrono dritte, seguono la loro storia”.

Negli anni Cinquanta e Sessanta però l’Italia intera aveva fretta. Le città si modernizzavano, il traffico aumentava, la parola “viabilità” entrava nel lessico politico come una promessa di efficienza. Pordenone non era da meno. Così, tra discussioni pubbliche, pareri della Soprintendenza e una crescente pressione a rendere più fluido il collegamento tra le due parti della piazza, nel 1960 iniziò la demolizione dell’arco, completata nel 1963. L’intervento fu presentato come necessario, un sacrificio sull’altare del rinnovamento urbano.
Nella discussione cittadina dell’epoca vennero citati diversi aspetti, tra cui le difficoltà dei mezzi più grandi nel muoversi tra gli angoli stretti della piazza.

In quel contesto, tra le attività che vivevano e lavoravano in quell’area, compariva anche la Casa Vinicola Pavan.

La Cantina Pavan non fu responsabile dell’abbattimento dell’arco; la sua presenza in piazza venne semplicemente citata, all’epoca, tra i vari elementi legati alle difficoltà di accesso dei mezzi pesanti. Il vero protagonista del gesto fu un’idea: la modernità. E la modernità, come spesso accade, è un ospite che non chiede se può entrare.

Casa Vinicola Pavan continuò a lavorare ancora per anni, ma il mondo del vino nel frattempo stava cambiando. Arrivavano nuovi gusti, nuovi mercati, nuovi standard qualitativi. Cresceva il bisogno di spazi più ampi, tecnologie aggiornate, logistiche moderne. Le cantine urbane, per quanto affascinanti, diventavano difficili da gestire. La produzione si spostò, infatti, a San Quirino, in Via Pordenone 33. Spazi nuovi, comodi, pensati per accogliere la trasformazione.

Infatti il destino della Pavan fu proprio quello della trasformazione.

Tra la fine del Novecento e i primi Duemila, la sua eredità — materiale e immateriale — entrò nelle mani di una delle realtà più dinamiche del momento: Piera Martellozzo, ora Piera 1899. Un’azienda capace di raccogliere la tradizione e rielaborarla, con una visione contemporanea, elegante e insieme radicata.

Ciò che era nato come una cantina cittadina trovò così un nuovo respiro in un ambiente che permetteva al vino di diventare qualcosa di più: non solo consumo quotidiano, ma racconto, identità, scelta consapevole. Piera Martellozzo seppe trasformare quel patrimonio in una storia nuova, capace di parlare il linguaggio del presente senza perdere il profumo del passato.
Oggi Piazza della Motta è diversa. È una piazza più aperta, più ariosa, forse meno misteriosa. L’arco non c’è più; le cantine non ci sono più. Ma la memoria — quella sì, rimane. Rimane nelle fotografie in bianco e nero in cui l’arco sembra ancora intento a trattenere un’ombra. Rimane nei racconti di chi ha visto i camion manovrare con pazienza tra le case. Rimane nei bicchieri di chi, magari senza saperlo, beve un vino che porta un’eredità passata da quelle strade.

Si potrebbe dire che la storia della Pavan e quella dell’arco siano due curve della stessa parabola: una città che non sta ferma, che perde qualcosa per guadagnare qualcos’altro, che si scrive e si riscrive senza soluzione di continuità. E in fondo è questo il destino dei luoghi: cambiare forma, ma non sostanza.

Piazza della Motta, anche senza il suo nobile interrompimento, continua a essere un punto in cui la città sembra ricordare a se stessa ciò che è stata. Se ci passi in un giorno di febbraio, quando la luce si appoggia lenta sulle pietre e il vento porta un odore che non sai definire, potresti quasi sentire — dietro un portone, in fondo a un vicolo — un profumo leggero di vino. Una memoria che non se ne vuole andare.

 


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