Se vi trovaste a dovervi difendere per una questione di eredità in tribunale, contro alcuni vostri parenti stretti, come reagireste? La risposta sarebbe difficile, non solo perché si tratta di “soldi vs famiglia” ma anche per i rapporti che intrattenete con questi familiari. Ovvio che se li odiate la questione è semplice: ma se costoro vi avessero pure allevato e cresciuto da quando i vostri genitori erano tragicamente morti mentre avevate poco più di qualche anno? E’ il curioso caso di Caterina Corradazzo.

Siamo a Forni di Sopra-Sotto, tra il 1536 e il 1538: se oggi la località montana è parte della provincia di Pordenone, all’epoca essa era in pieno territorio giuridico e amministrativo della Patrie dal Friûl, a sua volta inserito nella più grande e potente Repubblica di Venezia. Forni, in particolare, apparteneva a una nobile famiglia, i Savorgnan. Qui, nonostante la presenza di questi feudatari, l’amministrazione della giustizia civile costituiva una prerogativa esclusiva delle due comunità di Sopra e di Sotto, che godevano pure del privilegio del reciproco appello per le sentenze che erano state emesse nei due villaggi: per capire meglio, se un processo si svolgeva a Forni di Sopra, l’appello si faceva a Forni di Sotto e viceversa. La giustizia civile veniva amministrata dagli anziani della comunità, i quali per emettere un giudizio si basavano sulle leggi locali del villaggio, le consuetudini, le quali non erano scritte ma soltanto orali.

La famiglia Corradazzo era tra le più importanti e ricche del villaggio di Forni: essendo anche una delle più antiche e legate al territorio, essa godeva di un notevole rispetto. Caterina Corradazzo, figlia di un certo Matteo, era una giovane che si era sposata di recente, nel 1536, con Floriano Cacitti, un giovane di un vicino villaggio della Carnia. Suo padre era tragicamente venuto a mancare alcuni anni prima, nel 1522, quando una slavina aveva distrutto la loro casa, uccidendo buona parte della famiglia. Rimasta quindi orfana da bambina, Caterina fu allevata e cresciuta nella casa degli zii, fratelli del padre, tali Giovanni, Floriano e Sebastiano, quest’ultimo parroco di Forni di Sopra.

A due anni dal matrimonio, Caterina aveva reclamato il patrimonio che era appartenuto al padre: secondo lei, gli zii non le avrebbero concesso di ereditare ciò che  il genitore le aveva lasciato, dandole in cambio solo la consueta dote sufficiente da presentare al momento delle nozze. I fratelli, facendola sposare e mandandola fuori casa, avrebbero quindi pensato di concederle quel tanto che bastava per non porsi il problema di una ulteriore suddivisione del patrimonio a loro discapito.

Non sappiamo come il processo fosse iniziato, ma dai dati in nostro possesso siamo a conoscenza che esso, nonostante fosse legale, non fu del tutto regolare: secondo le leggi di Forni, la questione, avviata dalla denuncia di Caterina, si sarebbe dovuta giudicare dagli anziani del villaggio. Così non fu: lo zio Sebastiano, in quanto parroco, sarebbe riuscito a trasferire il processo direttamente a Udine, città di riferimento del territorio. Ma non in un tribunale civile qualunque, bensì in quello arcivescovile della città.

Un espediente molto utile: spostandosi a Udine, i fratelli avrebbero evitato di farsi giudicare dalle consuetudini che vigevano a Forni e che avrebbero potuto dare ragione a Caterina. Nel villaggio infatti vi era una consuetudine secondo cui le figlie che non avevano fratelli succedevano al padre in maniera piena, escludendo tutti i parenti collaterali. Di contro, nelle costituzioni della Patria del Friuli, le leggi, che erano invece scritte e basate sul diritto romano, e che riguardavano l’aristocrazia-borghesia friulana, privilegiavano la linea di successione maschile.

Quale sistema valeva di più? Nel sistema medievale, solitamente a prevalere era quello della piccola comunità mentre le leggi della Patria erano sullo sfondo. Ma questo solo se il giudizio si verificava sul posto: togliendo via il processo da Forni e trasferendolo a Udine il problema non si sarebbe posto. Caterina dovette quindi difendersi secondo quanto prevedeva la struttura di giudizio della Patria.

E si difese anche bene. Nei capitoli, o prove, portati in tale occasione ella faceva presente che a Forni non vigevano leggi scritte: nessuno poteva esprimersi e difendersi secondo leggi che non si erano mai viste nel proprio paese natale. In secondo tenne a precisare che i fratelli avevano un capitale di 200 ducati: la famiglia era ricca grazie all’allevamento ovino, commerciando la lana a Udine per cereali che a loro volta erano venduti in montagna. Ma di questa ricchezza solo i fratelli erano titolari.

Dal canto loro pure gli zii si difesero bene. D’altronde anche loro avevano delle motivazioni da difendere: tennero dapprima a sottolineare le ingenti spese fatte per aiutarsi a vicenda dopo la tragedia della slavina del 1522. Rincarando la dose: Forni apparteneva alla Patria, quindi le leggi che si sarebbero dovute applicare sarebbero dovute essere quelle friulane. In secondo luogo, nel villaggio non esistevano notai e giuristi: le sentenze erano emesse solo dagli anziani e ricordate a memoria, il che poteva risultare non del tutto affidabile. Cosa sarebbe successo se uno di questi non fosse stato imparziale o peggio avesse ricordato male un vecchio processo, tra l’altro senza l’aiuto di esperti nel settore?

Terzo: le femmine non succedono mai in presenza di maschi. Per motivare questo ultimo punto, sempre a Forni vi era un’altra consuetudine che affermava l’esclusione dei nipoti di figlio premorto dalla successione dell’avo, in favore degli zii paterni. Quando Matteo, padre di Caterina, morì, il nonno di lei, tale Tommaso, era ancora vivo: la consuetudine quindi avrebbe previsto che, poiché il nonno era sopravvissuto al figlio, l’eredità di quest’ultimo passasse non alla nipote ma agli altri figli. La consuetudine in questione diceva anche che se la figlia avesse concorso contro gli zii, avrebbe comunque avuto il diritto della sua legittima parte d’eredità. I fratelli erano furbi: questa ultima parte venne volutamente omessa, in quanto era un tentativo di rigirare la frittata usando le stesse armi di Caterina.

Come non sappiamo come e dove sia iniziato il processo, prima del trasferimento a Udine, così non sappiamo come esso sia finito. Chi lo avrebbe perso e chi vinto? Caterina avrebbe preso il controllo dell’eredità? Oppure i fratelli, forti delle leggi della Patria e dal giudizio dei notai e dei giudici udinesi del tribunale arcivescovile, sarebbero riusciti a far prevalere le loro ragioni? Purtroppo solo i diretti interessati lo avrebbero saputo. A noi non resta che una cosa: al di là degli spunti di ricerca storica, in maniera giocosa, “tifare” l’una o l’altra causa.

 

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