Elizabeth Strout è uno dei nomi più noti della letteratura americana contemporanea, nonostante i “soli” sei romanzi pubblicati dall’inizio della sua carriera, nel 1998, ad oggi. Premio Pulitzer nel 2009 per Olive Kitteridge, straordinario e luminoso “romanzo in racconti” dal quale è stata anche tratta una miniserie televisiva, la Strout è tornata di recente a regalarci un assaggio del proprio talento in Mi chiamo Lucy Barton, pubblicato in Italia nel 2016. Seppure i paragoni con Philip Roth e, in particolare, con la sua Pastorale americana si siano rivelati tutt’altro che esagerati, la Strout è una scrittrice che sfugge a una facile classificazione, e che possiede il dono innato di una scrittura ariosa, luminosa e leggera. Immediata, semplice.

I ragazzi Burgess è il suo penultimo lavoro ed è stato pubblicato nel 2013, dopo i cinque anni di silenzio che hanno seguito la pubblicazione di Olive Kitteridge (2008). I protagonisti sono Jim, Bob e Susan o, come tutti amano chiamarli anche in età adulta, “i ragazzi Burgess”: tre fratelli cresciuti su una casa gialla in cima ad una collina a Shirley Falls, piccola cittadina del Maine fuori da ogni tempo e da ogni spazio. Rimasti orfani di padre da ragazzini, vengono cresciuti da una madre con la quale coltivano un rapporto complesso, spesso oscuro, a tratti doloroso; una volta cresciuti, si allontanano sempre più da un nido familiare che, per qualche motivo, faticano a sentire proprio. Jim diviene un avvocato di successo, famoso in tutto il Paese per la vittoria di una causa storica; Susan rimane a Shirley Falls con il figlio, chiudendosi nel silenzio che segue una recente separazione dal marito; Bob, come il fratello Jim, vive a New York, ma è condannato ad uno stato di perenne vagabondaggio e allo stigma di un passato incancellabile.

Attorno ai ragazzi Burgess ruota un universo di altri personaggi, ognuno con il proprio silenzioso fardello. C’è la bellissima e ricca moglie di Jim, Helen, sconvolta dalla sensazione di vuoto e abbandono nata quando i suoi tre figli hanno lasciato la casa d’infanzia per scoprire l’indipendenza; c’è Pam, ex moglie di Bob, che con i Burgess è diventata adulta; e c’è Zach, unico figlio di Susan, ragazzino introverso e problematico. Il romanzo esordisce proprio qui: quando Jim, al rientro da una giornata di lavoro, riceve un’improvvisa telefonata dalla sorella in lacrime. Il figlio di Susan si è messo nei guai, e rischia di scontare una pena difficile da accettare. La fuga dal passato di Jim, Bob e Susan viene bruscamente interrotta: i tre fratelli saranno improvvisamente costretti a ricostruire ciò che resta della loro famiglia e a fare i conti con un legame da sempre avaro di sentimenti, ritornando a quel “nido” abbandonato tanti anni prima e forse mai davvero esistito.

Come Olive Kitteridgeanche I ragazzi Burgess è ambientato tra le colline e gli aspri strapiombi marittimi del Maine, terra natìa dell’autrice; in un’intervista rilasciata a Repubblica, la Strout dice al riguardo: “provengo da un mondo puritano, dove non si parla dei dolori personali.”  E sembra proprio per sorpassare questo divieto, dunque, che la Strout abbia scritto questo romanzo e il precedente: storie di vita ordinaria infuse di consapevolezza, un ritratto agrodolce dell’uomo moderno e della sua solitaria bellezza. Con leggerezza, mirabile umorismo e posata svagatezza, la Strout ci regala un’opera che parla alla famiglia, ai problemi dell’integrazione, al concetto di identità e infanzia, all’idea di colpa e di peccato. Un romanzo luminoso e che, nonostante i momenti d’amaro, dà al lettore un motivo per riscoprire la propria curiosità e il proprio entusiasmo di vivere.