Stefano Allievi propone una chiave di lettura originale e, per certi versi, controintuitiva sul tema delle migrazioni. L’idea di fondo è semplice e radicale allo stesso tempo: l’uomo non è una specie stanziale, ma migratoria.
Facendo una proporzione un po’ estrema, ma efficace, se la storia dell’umanità si potesse condensare in un giorno, scopriremmo di aver passato ventitré ore e cinquantaquattro minuti su ventiquattro da nomadi.
La stanzialità è quindi una condizione relativamente giovane per la nostra specie, resa possibile dalle condizioni di benessere economico e dalla costruzione di reti sociali stabili che la contraddistinguono.
Eppure, anche in questa fase della storia, apparentemente dominata da una certa staticità, l’indole dell’essere umano resta fortemente votata al movimento. Questo perché il movimento, a ben vedere, è un tratto distintivo della natura umana. La stessa nascita è un atto di migrazione: dal viaggio dello spermatozoo all’uscita del neonato dal corpo materno, l’esistenza si apre e si sviluppa attraverso partenze, spostamenti, attraversamenti.
Viviamo di movimento e, anzi, di “motilità”: non solo la capacità di spostarci nello spazio, ma anche la necessità di interpretare continuamente il cambiamento come parte integrante della vita. La sedentarietà è dunque relativa e viene costantemente interrotta da piccoli e grandi spostamenti quotidiani, che siano per lavoro, piacere o svago.
Negli ultimi decenni l’uomo ha ripreso a muoversi decisamente di più: la tecnologia ha reso più veloci ed efficienti i mezzi di trasporto, dando alle persone la possibilità di viaggiare a costi e sforzi più accessibili. Ciò vale anche per gli affetti personali: una videochiamata permette di mantenere legami e attenua la distanza, rendendo meno drammatico ciò che un tempo era vissuto come una separazione irreversibile.
Da notare anche come non si parli abbastanza delle migrazioni interne, ad esempio dalle montagne alle città per motivi di studio o di lavoro, né della mobilità che riguarda il mondo della scienza, dell’arte e dell’economia globale: congressi, mostre e festival producono un movimento continuo, che spesso passa inosservato perché dato per scontato.
Ovviamente, questo flusso costante ha delle conseguenze notevoli. Dalle migrazioni derivano gli incontri tra le culture, che nel tempo producono società plurali e multiculturali. Si tratta di un cambiamento che coinvolge anche chi resta fermo, poiché finirà comunque per incontrare chi si è mosso, e le sue peculiarità, nella vita di ogni giorno. È un processo qualitativo prima ancora che quantitativo: non è solo il numero di migranti o di viaggiatori a crescere, ma cambia la natura stessa della società, che diventa inevitabilmente eterogenea. Un flusso inarrestabile, che porta con sé conoscenze, risorse e tradizioni.
Interessante osservare come, tra gli esuli, sia impressionante il numero di intellettuali, traduttori, stampatori e giornalisti: tutte professioni legate alla diffusione della cultura. Forse è proprio per questo che gli esuli hanno spesso contribuito in modo decisivo all’apertura culturale dei luoghi che li hanno accolti. Essere esuli significa spesso essere cosmopoliti, guardare oltre i confini, portare con sé esperienze e prospettive che producono innovazione.
Allievi ritiene fondamentale il ruolo della scuola nella formazione di persone in grado di comprendere e migliorare la società plurale. La formazione delle nuove generazioni è la partita decisiva per il futuro: solo lì si può imparare a vivere la pluralità non come un problema, ma come un’opportunità. E per farlo serve probabilmente cambiare il nostro stesso modo di concepire la scuola, non più come luogo chiuso e omogeneo, ma come spazio di incontro e contaminazione.
Il tema del conflitto aggiunge un ulteriore livello di complessità. Allievi ha ricordato che l’uomo è, per natura, un animale conflittuale. Ma il conflitto spesso ha un valore positivo: diventa un momento di confronto che spinge a trovare nuovi equilibri e a raggiungere livelli di benessere più alti. L’unico modo per eliminare totalmente il conflitto sarebbe vivere in completa solitudine, ma non è un’opzione possibile.
Certo, esistono identità reattive, generate dalla paura del nuovo e dalla difficoltà di accettare la pluralità. Ma la società cresce anche attraverso i suoi contrasti, che finiscono per oscurare i numerosi esempi riusciti di convivenza, poiché tendono a fare più rumore.
Il messaggio che ne emerge è chiaro: viviamo in una società di minoranze, plurale e mobile, e il movimento non può essere fermato. La vera sfida non è contrastarlo, ma imparare a comprenderlo, raccontarlo e gestirlo. Accettare che conflitto e pluralità siano parte integrante della vita collettiva significa trasformare la mobilità in convivenza. È un compito difficile, ma anche l’unico modo per immaginare un futuro in cui la diversità diventi ricchezza e non motivo di divisione.

Nasco a Udine, vivo a Spilimbergo, Clauzetto e la Valcosa nel cuore e nelle origini. Strimpellatore di basso, corridore a tempo perso, presidente di Spilimbergomusica, membro attivo di troppe associazioni e insegnante di lingue ancora precario per lavoro e per vocazione. Ogni tanto scrivo per L’oppure cose più o meno intelligenti.