Din don campanòn

La campana de Pordenon

che sonava tanto forte

da buttar xo le porte 

[…]

Queste le prime righe di una filastrocca che tutti i pordenonesi hanno sentito almeno una volta, magari cantata dai nonni o dai genitori, e che rileggendola canticchiano a mente. Le campane di Pordenone non sono solo bronzi che vibrano: sono voce collettiva, calendario sonoro e memoria della comunità. Per secoli hanno scandito le giornate, annunciato nascite e morti, vittorie e lutti, feste solenni e tragedie. Il rintocco non era semplice rumore: era un segnale condiviso, comprensibile a tutti, un linguaggio senza bisogno di traduzione.

A Pordenone, il duomo di San Marco conserva una tradizione campanaria che risale al Medioevo. Già nel Duecento una prima torre ospitava almeno una campana, ma fu con il campanile del 1347 – collaudato ironicamente dal terremoto del 1348 – che la città poté contare su un concerto di più bronzi. I documenti ci restituiscono la forma antica delle campane: allungate, con maniglie e decorazioni essenziali, lontane dalle proporzioni armoniche a cui siamo abituati oggi.

Col passare dei secoli, i bronzi cambiarono pelle. Campane fuse tra Quattrocento e Seicento – come quella del 1627 dei fratelli De Fadiis – ci raccontano un mondo in cui l’arte del fonditore era già mescolata con simboli religiosi e civici: Madonne, santi guerrieri, stemmi e iscrizioni ornate di festoni floreali. Ogni campana era un libro di bronzo, inciso per parlare non solo con il suono, ma anche con le immagini.

Le guerre moderne, però, non ebbero pietà per le voci antiche. Durante il primo conflitto mondiale gli austro-ungarici requisirono le campane per farne cannoni. Quelle rifuse nel 1921 con bronzo bellico si rivelarono presto fragili e “stonate”: troppo piombo e zinco nelle leghe. Il Novecento vide così alternarsi rifusioni, riparazioni e nuove installazioni. Memorabile rimase la campana del 1627, detta “della Vittoria”, che sopravvisse al saccheggio e rintoccò alla fine della Grande Guerra.

La vera svolta arrivò negli anni Novanta. Elevato il duomo di San Marco a concattedrale, si decise di adeguare il concerto alle prescrizioni antiche: sei campane per le chiese vescovili. La Fonderia De Poli di Vittorio Veneto, custode di tecniche secolari, fuse nel 1991 cinque nuovi bronzi destinati a dialogare con la vecchia campana superstite. Qui il passato si intrecciava con il presente: leghe calibrate (78% rame, 22% stagno), forni a legna alimentati a faggio stagionato, stampi di argilla e sterco equino come nei cantieri medievali.

Il 16 febbraio 1992 il nuovo concerto venne benedetto e inaugurato. La città ritrovò un patrimonio sonoro arricchito di significati: ogni campana portava decorazioni, iscrizioni e dediche precise. Una dedicata a Giovanni Paolo II, un’altra a San Marco, una alla città, una alla memoria delle campane del 1921 e un’ultima alla Provincia. In questo modo la fusione moderna incorporava simbolicamente secoli di storia, religione e identità civica.

La campana maggiore, dono della Diocesi, pesa oltre 26 quintali e suona in si bemolle. Accanto ad essa, le altre intonano un dialogo che va dal do al mi, creando un’armonia pensata per accompagnare liturgie solenni e momenti quotidiani come l’Angelus. Il loro suono non è casuale: nasce da calcoli, proporzioni e tradizioni acustiche tramandate da generazioni di fonditori.

Le campane di San Marco, oggi, non sono solo strumenti liturgici ma veri monumenti sonori. Continuano a trasmettere quel codice universale che attraversa i secoli: un linguaggio che non ha bisogno di parole per dire festa, dolore, pace o allarme. E che hanno un’identità ancora oggi tramandata da una popolare filastrocca.


Per approfondire:

  • Fabio Metz, Paolo Goi, “Terribilis est locus iste. Hic Domus Dei est et porta coeli et vocabitur aula Dei”. Per una lettura dell’arredo liturgico del duomo di San Marco, in San Marco di Pordenone, vol. I, a cura di Paolo Goi, Edizioni Geap, Pordenone, 1993, pp. 389-461.
  • Arturo Busetto, Il restauro del Campanile, in San Marco di Pordenone, vol. II, a cura di Paolo Goi, Edizioni Geap, Pordenone, 1993, pp. 825-871.