L’identità di un pordenonese, un po’ tutti lo sappiamo, è cosa complessa da definire: non siamo veneti, nonostante la parlata, perché siamo considerati, al di fuori della nostra regione, friulani; ma non siamo nemmeno friulani perché, appunto per la parlata, all’interno della nostra regione, siamo e ci sentiamo veneti. Questo piccolo e divertente paradosso è di per sé un grande valore: è la conferma che Pordenone, e buona parte della sua provincia, rappresenta qualcosa di unico non solo nel Friuli- Venezia Giulia.

L’unicità della nostra città è il risultato della sua storia, anch’essa del tutto originale. I friulani doc ancora oggi sono orgogliosi di identificarsi con la Patrie dal Friûl, noto ai non addetti ai lavori (o anche alla lingua) come il glorioso Patriarcato di Aquileia: una patria che, praticamente da sempre, non ha mai fatto parte dei sentimenti pordenonesi e che non è mai stata considerata tale. Pordenone, assieme ad altri borghi limitrofi, non presiedeva al Parlamento del Friuli: tutto quello che era racchiuso all’interno delle mura apparteneva infatti ai signori d’Austria.

Il più grande ricordo e vanto di questa unicità è rappresentato dalle sue leggi fondamentali, gli Statuti. Essi si fanno risalire al 1291, data in cui il duca d’Austria Alberto I concedeva e confermava, quale signore di Pordenone, i diritti, le libertà e i privilegi dei pordenonesi. Lo statuto cittadino era qualcosa di comune a molti borghi medievali: poiché in Italia ogni comune era di per sé uno stato autonomo, queste leggi erano una sorta di costituzione concessa da un’autorità (il feudatario, il re, il duca, il papa, una città dominante o lo stesso consiglio cittadino). Una costituzione del tutto particolare, che non valeva al di fuori delle mura, se non per quel che riguarda il contado annesso al nucleo urbano. Nel caso di Pordenone essi erano diversi da molte altre leggi fondamentali in vigore nei borghi della Patrie, il che dava un valore aggiunto.

Lo Statuto venne più volte confermato e modificato, su richiesta dei pordenonesi e a seconda delle mutate circostanze, dai successori di Alberto, fino agli anni ’90 del 1400 quando, presa una forma concreta già nel 1439, venne ritoccato per l’ultima volta dal re di Germania, nonché imperatore del Sacro Romano Impero, Massimiliano I. Se spulciamo qua e là gli articoli delle leggi pordenonesi (che avevamo già avuto modo di vedere qualche tempo fa), riusciamo a ricostruire non solo la gerarchia di potere ma anche tutte quelle norme che definivano il corretto vivere civico.

Con ordine, osserviamo l’impalcatura dell’amministrazione. Al massimo vertice della scala gerarchica vi era il Capitano: costui, simile ai gastaldi friulani, veniva eletto direttamente dal duca d’Austria tra le famiglie locali più influenti, come i conti di Ragogna, di Porcia, i Craigher, i Castelbarco, ecc… ed aveva poteri militari, politici e amministrativi. Il primo Capitano dalla nascita dello Statuto fu Carlo de Hamprecht, anche se il primo in assoluto fu tale Offredo di Ragogna, eletto nel 1219,. L’ultimo di nomina austriaca fu invece Ulrico de Osterwitz, eletto nel 1510.

Obbligo fondamentale che gli spettava era manutenere rationes et consuetudines Communitatis dicti Portus: tradotto, mantenere le leggi e le consuetudini della suddetta comunità di Pordenone. Le consuetudini altro non erano che il nome di riferimento degli statuti, letteralmente “ciò che era solito- abitudine” quindi “non modificabile”, come pure il termine “comunità” stava a indicare non la città bensì gli abitanti. Sono sottili sfumature cariche d’importanza per capire la mentalità del tempo.

Al Capitano seguiva il Podestà, anch’esso nominato dall’alto, che rappresentava, assieme ai giudici eletti dal popolo, la giustizia: infatti i cittadini se volevano quaerelari de aliquo (denunciare qualcuno), dovevano rivolgersi in primis a lui. Se per qualche motivo qualcuno lo scavalcava e si rivolgeva al capitano, incorreva in una multa di libras vigintiquinque soldorum (una lira da 25 soldi). Spettava al podestà convocare il Consiglio comunale, composto da cittadini di buon nome, anche popolani, ogni lunedì per discutere de honore domini (del prestigio del territorio circostante), status terrae (la condizione delle terre limitrofe), utilitate Communis (i vantaggi/progetti del/per il comune), mentre ogni martedì e venerdì egli istituiva i processi.

Ad affiancarlo vi erano i Massari, funzionari preposti a far eseguire e rispettare qualsiasi deliberazione presa a maggioranza di voti dal Consiglio. Deliberazioni che, votate in tal maniera, non potevano venire revocate. Il giorno di Sant’Agnese, il 21 gennaio, alla presenza di un notaio, il Podestà ordinava la riscossione delle imposte, corrispondenti a libre 114 denariorum parvorum (una lira da 114 denari piccoli) che in seguito venivano consegnate al Capitano. Ed erano proprio i massari a svolgere l’ingrato compito, riscuotendo il denaro delle multe, dei bandi, le tasse sul vino (corrispondenti a un quarto del prezzo di vendita) e tutti gli altri dazi del Comune, cioè tre denari piccoli per ogni libra d’olio, e uno per ogni libra di carne. I massari non avevano lo stesso potere del Podestà ma come lui potevano ordinare l’apertura delle porte e l’abbassamento dei ponti della città di notte.

I giudici, eletti nello stesso giorno dei massari, erano l’unica istituzione democraticamente votata: tre di numero, selezionati tra i membri del Consiglio, si riunivano a giudicare in prima istanza sia nei processi civili che penali/criminali nel momento in cui il podestà istituiva un processo. Il giudizio di seconda istanza spettava invece al Capitano, il quale però poteva giudicare in prima istanza nei casi che riguardavano i borghi vicini, come Rorai, Cordenons, Villanova, Comun de Noncello, e il Comun de Poincicco; mentre l’appello spettava direttamente al duca d’Austria. I giudici non potevano allontanarsi dalla città per più di un giorno senza permesso.

Le pene, fissate secondo lo Statuto, non erano uguali per tutti, variando a seconda delle condizioni delle persone: infatti, podestà e giudici decidevano non solo secundum qualitate delicti (secondo la portata del delitto) ma anche con consideratione ad qualitatem personarum (considerando la persona che avevano davanti). Del resto, la pena variava ancora se il delitto veniva commesso di giorno o di notte, nel qual caso veniva raddoppiata. Veniva pure aumentata se il luogo del delitto era il Ponte o sotto la Loggia del Comune, mentre ne usciva il Podestà o il Consiglio. Due volte l’anno Podestà e giudici avevano inoltre il compito di rendere giustizia anche per il distretto, precisamente quindici giorni dopo la Pentecoste e quindici giorni dopo l’Epifania, e, qualora fosse richiesto, dovevano rendere giustizia anche ai forestieri, le cui difese venivano redatte dal Capitano in persona.

Circa i commerci, il Comune considerava il mercato una questione d’onore: siccome dalla giustezza e dalla precisione dei pesi e delle misure dipendeva la buona reputazione commerciale della città, sotto la Loggia si trovavano le misure per il controllo e, per impedire eventuali abusi da parte dei commercianti, era fatto obbligo ai giudici di verificarle due volte l’anno. Il controllo comunale inoltre si estendeva anche sulle licenze di vendita, giacché lo Statuto ammoniva che nessun macellaio o taverna dovesse vendere i suoi prodotti (carne e vino) senza autorizzazione da parte del Podestà e dei giudici. Questi ultimi, quasi fossero ispettori alla sanità o alla qualità, quindi erano anche responsabili del controllo del bestiame che veniva mandato al macello.

Queste sono solo un’estrema sintesi di quanto è contenuto nello Statuto della comunità. Se leggiamo più a fondo queste leggi fondamentali, scopriamo che esse rispecchiavano non solo l’abitudine legale del corretto vivere civico ma proprio una mentalità del tutto particolare e come tale unicama condivisa sotto alcuni aspetti nell’Italia del Medioevo.

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