Lasciato per sempre il 1514, decidiamo di prenderci una pausa tra un’era e l’altra per riepilogare quanto visto finora: se nel XII secolo abbiamo assistito alla posa delle prime pietre della città, un secolo e mezzo dopo essa era già caratterizzata quasi fosse un borgo medievale di più antica fondazione, mentre in pieno Rinascimento la si vede coinvolta pienamente nelle vicende riguardanti l’Italia e la situazione storica generale di quegli anni. Gironzolando qua e là, abbiamo avuto occasione di chiarire svariati dubbi che mano a mano ci si presentavano, osservando di volta in volta gli aspetti più particolari.
Nell’epoca che abbiamo appena lasciato, ad esempio, avevamo sentito che una delle più grandi paure dei pordenonesi era la perdita della loro libertà dinnanzi all’avanzare delle truppe veneziane, con riferimento alla possibile e conseguente perdita delle leggi tipiche della città; norme e statuti che fino a quel momento avevano regolato la vita di Pordenone. Il discorso non era nuovo: già nel 1318 avevamo assistito all’applicazione di una di queste leggi, riservata ai battibecchi tra donne, ma più di tanto non ci eravamo dilungati. Ma le altre? Quali erano, e cosa voleva dire violarle?
Prima di fare un rapido elenco, si deve precisare che Pordenone non ebbe sin da subito una sua legge particolare. Si deve aspettare infatti il 1291, quindi circa 150 anni dopo le prime costruzioni, prima che la città potesse godere di una propria “costituzione”, quando il duca Alberto I d’Asburgo concederà quei primi regolamenti che saranno poi alla base delle norme successive. Nel 1438 avvenne una modifica decisiva: essendo le prime leggi ormai vecchie e non più adatte al governo della città, i pordenonesi richiesero e ottennero una revisione di queste norme, con l’aggiunta di regole su questioni di ordine pubblico, lavorativo, di diritto privato e penale.
In sintesi, questa la struttura piramidale di governo, lo scheletro di Pordenone: alla base, i cittadini del Comune eleggevano una volta l’anno, nel giorno di San Giorgio (23 aprile), un consiglio comunale di 10 persone, di cui quattro popolani “illustri” e sei nobili. Al secondo gradino troviamo il podestà, governatore amministrativo della città nominato dal capitano tra i dieci consiglieri, i massari, una sorta di agenti del fisco nominati dal consiglio, e tre giudici, scelti dai cittadini: questi, come abbiamo visto, amministravano la giustizia sotto la Loggia, ma solo di martedì e di venerdì e solo se almeno due di loro erano presenti al processo. Al vertice, infine, il capitano stesso, nominato dall’imperatore: costui aveva poteri militari e politici e solo in parte amministrativi riferiti al borgo, dato che aveva in amministrazione la cosiddetta Podestaria di Pordenone, comprendente i dintorni come Rorai, Cordenons, San Quirino, Villanova, Poincicco e Fiume Veneto.
Arriviamo quindi alla parte interessante: cosa succedeva se si violavano le leggi? Sintetizzando, le pene previste erano due, di diverso tipo. La prima è pecuniaria (l’ambito delle multe) la quale rimpinguava sia le casse del Comune che quelle del capitano, che le tasche dell’accusatore; se però quest’ultimo non riusciva a dimostrare la colpa di chi aveva denunciato, avrebbe lui stesso pagato la multa che sarebbe spettata al condannato. In certi casi, chi accusava il falso, doveva pagare, oltre a una multa di 50 lire, con il taglio della lingua! Curiosamente, chi bestemmiava non subiva un simile trattamento: costui era obbligato a pagare una multa, minore se a essere insultati erano i santi, e se non poteva pagare veniva posto alla berlina pubblica. Multe erano previste pure nel caso in cui i cittadini svuotassero in strada il secchio della notte dalle finestre oppure se qualcuno cercava di filarsela dalla città scavalcando le mura.
Il secondo tipo di pena era, come accennato, la punizione corporale. Tremenda era la condanna a morte per squartamento, riservata ai traditori, ribelli e cospiratori. Ai sicari e a chi commetteva grandi furti spettava l’impiccagione, come pure ai complici, mentre la decapitazione spettava agli assassini e ai rapinatori di donne di buona cittadinanza. Non da ultimo, il rogo era destinato a chi appiccava il fuoco alle case entro le mura (abbiamo visto quanto può essere drammatico un incendio a quell’epoca), ai sodomiti, ai genitori che avevano ucciso i propri figli, anche con l’aborto non spontaneo, e ai falsari. Il ladro comune, invece, se colto in flagrante dal proprietario, poteva essere ucciso senza problemi da costui. Stesso discorso valeva se un marito scopriva la moglie a letto con l’amante. Infine, forse con più significato, c’era la pena di morte per chi tentava di entrare in città scavalcando le mura: ricordiamoci che, in guerra come in pace, chi entrava in questa maniera non aveva mai buone intenzioni ed era sempre e comunque un potenziale rischio per l’intera comunità.
Questa la sintesi generale di ciò che, fino a questo momento, non abbiamo potuto vedere o abbiamo visto solo in parte. Dare un giudizio sarebbe ovviamente cosa assurda: ricordiamoci che questa era la prassi comune nel medioevo ed è sempre necessario fare una contestualizzazione dei tempi in cui queste leggi venivano applicate. Con Venezia, questi regolamenti non muteranno molto nella sostanza: se ne aggiungeranno altri, alcuni verranno eliminati o rivisti, mentre verrà penalizzata l’autonomia tipica del periodo imperiale. Ma questo avremo modo di vederlo con calma proseguendo il nostro viaggio. Prossima destinazione: il ‘6-700.
Pordenonese doc, classe 1992. Dottore di ricerca in Scienze storiche tra l’Università di Padova, Ca’Foscari di Venezia e Verona, mi piace pensarmi come spettatore di eventi che in un futuro lontano saranno considerati storia. Far conoscere al meglio e a quanti più possibile il nostro passato, locale e non, è uno dei miei obiettivi e come tale scrivo con passione per le mie amate Radici.