Non è una domanda che ci si pone subito, pensando a Trieste (forse da sempre convinti che le fonti della vita di questa città siano il mare, il porto, la posizione geografica strategicamente a cavallo tra penisola italica e penisola balcanica), ma è la domanda fondamentale all’interno del capitolo “Insediamenti umani”: da dove arriva l’acqua potabile?

Il carso triestino è senza dubbio affascinante, ma ben lontano dall’offrire paesaggi paragonabili a quelli dei sette colli di Roma, della campagna toscana, della pianura padana. Il fiume più importante delle vicinanze è il Timavo, un corso d’acqua introverso e a dir poco schivo, che riemerge dalle sue caverne sotterranee solo per gettarsi immediatamente nel mare, presso San Giovanni di Duino, ad una ventina di chilometri dalla città. Trieste è una città orfana di fiume.

L’ingegno dei Romani fu in grado di plasmare tre opere di approvvigionamento idrico (gli acquedotti di Bagnoli, San Giovanni e Settefontane) che, unite ai numerosi torrenti e rivoli che rigavano le guance di questo ancora modesto insediamento, erano sufficienti a soddisfarne il fabbisogno.

La giunzione tra il terreno carsico circostante e il Flysch impermeabile che compone il sottosuolo triestino (strati alterni di marna e arenaria intercalati da argilla), infatti, è un ottimo punto di risalita per tutte quelle acque piovane che penetrano nello “spugnoso” sottosuolo carsico. Queste acque davano vita a varie fonti (ad esempio le leggendarie sette fontane dell’omonima via) da cui poi si dipartivano brevi torrenti pronti a gettarsi in mare appena qualche chilometro più avanti.

I problemi si ebbero con l’esplosione urbanistica conseguente alla dichiarazione di porto franco da parte dell’imperatore Carlo VI d’Asburgo (1719). Da un lato non c’era abbastanza acqua potabile, dall’altro la presenza di questi rigagnoli inteferiva notevolmente con la costruzione di nuovi edifici e creava problemi di igiene pubblica in seguito a grandi pioggie ed esondazioni. Quest’ultimo problema venne risolto con l’interramento progressivo dei torrenti al di sotto delle strade di nuova costruzione: Rio San Michele sotto via San Michele (con foce presso l’Acquario), Rio Pondares sotto Corso Italia (con antica foce stimata all’incirca sotto la Portizza), Rio Baiamonti sotto via Baiamonti, torrente Roiano sotto piazza tra i Rivi a Roiano (e foce nel porto vecchio) e infine torrente Grande (dalla confluenza del torrente Settefontane e dello Starebrech, che scende da via del Farneto giù per via della Ginnastica) sotto via Carducci.

Come questi, molti altri minori con storie diverse e nomi a volte andati perduti. Le poche foto che si trovano, scattate durante lavori ed esplorazioni negli anni successivi, fanno quasi scendere un brivido lungo la schiena: arcate di pietra sotto la strada, cisterne, cunicoli.

Un tentativo di risolvere il primo problema invece, quello della necessità di acqua potabile, venne dalla giovane Maria Teresa d’Austria: l’Acquedotto Teresiano. Gli ingegneri incaricati di progettare i lavori sapevano bene una cosa, cioè che sì il Flysch del sottosuolo triestino è impermeabile, ma è proprio per questo che nelle sue scabrosità e fissurazioni naturali vanno a depositarsi le acque piovane che non riemergono sotto forma di torrenti.

Sfruttando queste faglie naturali del terreno e costruendo gallerie e docce in pietra per drenare ogni goccia, riuscirono a stabilire un capofonte presso la chiesetta di S. Giovanni e S. Pelagio (attualmente consacrata a S. Giovanni Decollato, in piazzale Gioberti) e a far partire da lì il famoso acquedotto, che corre per un paio di chilometri (passando all’incirca sotto Viale XX Settembre, entrando nel cuore della città presso i portici di Chiozza ed incrociando qualche metro dopo l’interrato torrente Grande). Esso andava poi ad alimentare tre fontane che furono costruite negli anni immediatamente successivi: la fontana del Giovanin in piazza Ponterosso, la fontana di Nettuno in piazza Borsa (in foto) e la fontana dei Quattro Continenti in piazza Unità.

Contro le previsioni, quest’imponente opera fallì nei propri intenti non troppo tempo dopo: l’acqua che convogliava non era abbastanza e tentativi di potenziamento successivi non ebbero i risultati sperati. Nel primo dopoguerra fu scollegata dalla rete di acqua potabile e nel secondo dopoguerra venne allacciata alla rete fognaria.

Al giorno d’oggi, Trieste ha dovuto dire definitivamente addio alle proprie acque (fatta eccezione per alcune zone nel comune di San Dorligo della Valle) e imparare a cavarsela con varie soluzioni. Le due condutture principali (che corrono, rispettivamente, la prima parallela alla strada Costiera e la seconda sottomarina dal Villaggio del Pescatore) attingono ai pozzi sotteranei dell’Isonzo e alle risorgive di Sardos presso Duino. In casi di necessità, è previsto di andare a disturbare il fiume Timavo in persona.

 

 

 

 

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