Negli Stati Uniti, il lasso di tempo che va dagli anni Sessanta agli anni Novanta viene definito, da addetti ai lavori e divulgatori, “l’epoca dell’epidemia dei serial killer”. È a quel periodo che guarda Stefano Nazzi, giornalista di lungo corso e voce dell’acclamato podcast Indagini, nel suo nuovo libro Predatori. I serial killer che hanno segnato l’America, edito da Mondadori.

Non è un caso, infatti, che il termine serial killer nasca proprio in quegli anni, coniato dagli agenti dell’FBI Robert Ressler e John Douglas, poi resi celebri dalla serie tv Mindhunter. Ressler e Douglas furono i pionieri della profilazione criminale, contribuendo a creare i modelli che avrebbero facilitato il lavoro delle forze dell’ordine negli anni successivi. Un lavoro immane, anche dal punto di vista psicologico: basti pensare che i due agenti passarono ore a interrogare ben 36 tra i più famosi assassini seriali statunitensi.

I tratti distintivi del serial killer non sono sempre uguali, ma è possibile risalire a un movente di fondo comune a tutti: il desiderio di dominio assoluto sulla vittima, di possesso, di potere di vita e di morte sull’altro. Si tratta evidentemente di persone affette da disturbi patologici ricorrenti, quasi sempre legati a traumi e violenze subite.

Contrariamente alla narrazione comune che vede l’assassino seriale come un solitario disturbato, in rotta con la società — come l’Unabomber americano Theodore Kaczynski — vi sono diversi casi di killer perfettamente calati nel tessuto sociale.

Due esempi su tutti: Ted Bundy e John Wayne Gacy. Il primo, militante del Partito Repubblicano e uomo di successo, di bell’aspetto, quasi il ritratto del fidanzato ideale. Il secondo, il “clown killer”, padre di famiglia, attivista democratico, imprenditore, uomo bonario rispettato da tutti. Come loro, molti altri presentavano un quoziente intellettivo sopra la media e, in alcuni casi, persino carisma e capacità di leadership.

Un’altra prospettiva sinistramente interessante di questo fenomeno è il fascino paradossale che questi criminali esercitano sulle persone comuni. Bundy riceveva centinaia di lettere d’ammiratrici, e persino in Italia casi come quello di Pietro Maso o di Erika De Nardo — una delle poche assassine italiane — hanno scatenato un simile interesse. Più che di “fascino del male”, probabilmente si dovrebbe parlare di “fascino malato”.

È un aspetto che rischia di trasformare la narrazione dei serial killer in una sorta di mito epico, tanto che a volte i luoghi di sepoltura delle vittime non vengono rivelati per timore che diventino luoghi di culto. Da antagonisti sociali a eroi, con il giusto storytelling, il passo, per quanto illogico, è sorprendentemente breve.

Dati alla mano, quest’epoca di terrore omicida volge al termine negli anni Novanta, con lo sviluppo di tecnologie di sorveglianza prevenzione, sistemi di allarme, telecamere urbane e banche dati digitali, che hanno portato a una significativa diminuzione degli omicidi seriali e dei reati violenti. Un prezzo, evidentemente, pagato con la rinuncia a una parte della nostra privacy in cambio di maggiore sicurezza.

Nazzi cerca anche di risalire alle origini di un fenomeno criminale così vasto. Tra le concause, l’autore segnala due elementi centrali: la progressiva diffusione, in quegli anni, della pornografia a livello mainstream — anche in forme aggressive e spinte — e le ferite ancora aperte delle guerre statunitensi, dalla Seconda Guerra Mondiale al Vietnam, passando per la Corea, che avevano abituato milioni di americani a immagini di brutalità quotidiana e alle perdite di familiari in battaglia.

La violenza, insomma, non era confinata ai crimini, ma permeava — e continua a permeare — l’intera società statunitense, trovando sfogo tanto nelle strade quanto nelle case. Non a caso molti serial killer condividevano un background familiare simile: padri caduti in battaglia o reduci di guerra, madri autoritarie, abbandoni e relazioni affettive distorte.

Impossibile chiudere senza citare le parole Ted Bundy, macabre ma fin troppo veritiere:

Siamo i vostri figli, siamo i vostri mariti, siamo dappertutto.