Studiare o non studiare il latino? La domanda è di quelle scottanti e al centro dei dibattiti sul futuro della scuola. Nicola Gardini, oggi professore di letterature comparate presso l’Università di Oxford, ha scelto di dedicarsi, nel suo ultimo libro, a rispondere a questa domanda: in maniera affermativa. Ripercorriamo assieme le ragioni del “sì”.
Il latino è la lingua di una civiltà che ha formato l’Europa. Non solo. Per noi italiani è anche un fantasma: abbiamo un rapporto ombelicale con questa lingua. “Il fantasma è sempre con noi: siamo figli del latino, è nel nostro sistema genetico” spiega Gardini. Ma lo studio del latino “non è l’appropriazione meccanica di qualcosa di disponibile”. Anzi: il latino ci è stato trasmesso fortunosamente. Ne sono un esempio gli Annales di Ennio, di cui solo pochi frammenti si sono conservati. O ancora Catullo, “l’autore più amato dai liceali”, che ci è giunto grazie a un unico manoscritto conservato a Oxford. Studiare il latino vuol dire anche questo: rendersi conto delle fortune storiche che il latino ha attraversato. “Siamo abitati dai fantasmi, abbiamo una durata storico-biografica limitata: il latino ce lo insegna”.
Ma il latino è anche bellezza, e la sua bellezza sta soprattutto nella sua complessità. A tutti noi è capitato di imbattersi in un periodo complesso dal quale inizialmente non riuscivamo a ricavare un senso: poi un accostamento di suoni e la frase comincia a parlare; e spesso da un accostamento di suoni si produce una traccia. Poi ciascuno coglierà la risonanza, o la promessa di una risonanza. A scuola dobbiamo tradurre, leggere i testi antichi. Perché? “Perché sono grandi bacini di significato, riserve di senso. Chi studia il latino studia una scienza del significato” dice ancora Gardini.
Ma come possono gli insegnanti essere sicuri che questa esperienza di bellezza possa rimanere ai ragazzi? Risponde Di Terlizzi: “Incontrare il latino è incontrare un segreto che prima o poi si svelerà. Già quando si comincia a studiare le declinazioni c’è una promessa di attesa che va rispettata da entrambe le parti, dallo studente e dall’insegnante, e che va mantenuta viva e attiva. I presupposti di questa attesa sono cambiati in questi anni. La mia esperienza da studente era che il liceo classico offriva delle possibilità concrete dopo la scuola, per tutti indipendentemente. C’era un patto di promesse e significati”.
Dietro l’esercizio del piacere del testo ci deve dunque essere una promessa sostenibile, un patto che nasce in classe, da subito, tra ragazzi e insegnante, anche se bisogna dire che le premesse per un futuro sicuro che c’erano fino a una decina di anni fa ora, a causa della crisi, non ci sono più. Quel che rimane certo è l’accesso alla bellezza, che costa fatica. Ma, per dirla con Rilke, rievocato da Cescon “ciò che è facile non pretende nulla da te, è ciò che è difficile che ti aspetta”.
Nata a Pordenone, classe 1990. Si autodefinisce “classica”. Studia pianoforte, pratica la danza classica e si laurea in lettere antiche presso l’Università degli Studi di Padova e la Scuola Galileiana di Studi Superiori. Vive in una delle capitali della classicità: Vienna, dove – presso l’Istituto di Studi Bizantini e Neoellenici – svolge il suo dottorato e collabora a diversi progetti di ricerca. Ama i manoscritti, il greco, la matematica, i viaggi, la fotografia.