Ad inventarsi questa particolare definizione fu il poeta Giorgio Caproni. Il ‘passaggio di Enea’ è la condizione dell’uomo costretto a fare i conti con l’eredità della Seconda Guerra Mondiale. Come Troia brucia alle spalle dell’eroe virgiliano, così il passato e il mondo si frantumano in mille pezzi di fronte al dramma dell’olocausto, della bomba atomica, dei totalitarismi. Al tempo stesso, il futuro appare lontano, indistinto, quasi impossibile da raggiungere, come quel lido della costa laziale a cui Enea è destinato. A suggerire al poeta questa analogia fu una statua settecentesca eretta in uno dei luoghi più bombardati di Genova, Piazza Bandiera. Il monumento raffigura l’eroe nella sua posa classica: sulle spalle porta il padre Anchise, vecchio e debole, e per mano tiene il giovane figlio Ascanio, quel futuro così fragile per il quale ancora deve trovare una casa.

Allora io vidi in Enea, non la solita figura virgiliana, ma vidi proprio la condizione dell’uomo contemporaneo, della mia generazione: solo nella guerra, con sulle spalle un passato che crolla da tutte le parti, che lui deve sostenere e che per mano ha un avvenire che ancora non si regge sulle gambe. Proprio l’uomo solo, vedovo, rimasto così…, senza né una speranza, né una tradizione. Avevo visto il simbolo, appunto, della mia generazione.

A ben riflettere, l’intuizione di Caproni ben si adatta ad ogni epoca e ad ogni generazione, compresa la nostra. Messa di fronte alle domande e alle sfide cardine della vita, ogni generazione rappresenta un nuovo inizio. Non è possibile adagiarsi sugli allori, fare affidamento solo sul proprio passato, perché questo è già in fiamme e di esso ci è data solo una minima parte, un povero vecchio che ci portiamo sulle spalle. Ogni generazione è così chiamata a trovare la propria Roma, a rifondare la propria patria, a costruire un porto sicuro per quel gracile futuro che ha portato in salvo dal passato in rovina. In quest’ottica l’intuizione poetica di Caproni ci restituisce un fortissimo anelito alla vita, all’azione, all’essere protagonisti, a prendere in mano il proprio destino. Ci restituisce quel senso di responsabilità che in tutta la Storia è proprio solo dell’uomo: custode del passato, ha l’obbligo morale di andare avanti, crescere, innovare, scoprire, migliorare.

Un anelito che per la mia generazione, quei millennials nati a cavallo del 2000, dovrebbe diventare una filosofia di vita. Inutile nasconderlo, nel nostro paese il passato ha un peso specifico immenso, tale che da decenni ormai l’Italia vi si è adagiata. La nostra occupazione preferita è gloriarci dei fasti del nostro passato: adoriamo la cultura classica, celebriamo il mito dell’Umanesimo e del Rinascimento, visitiamo gli enormi musei a cielo aperto, ci definiamo la culla del sapere occidentale. Nulla più di uno sterile manierismo. Il passato che ci portiamo appresso, per quanto straordinario, è inutile. È inutile perché non facciamo i conti con esso, ma ci limitiamo ad adorarne i resti morti e stantii. Fare i conti con il passato significa avere il coraggio di fuggire da una Troia in fiamme, prendersi sulle spalle il vecchio Anchise e spalancare il cuore al proprio destino. Attenzione, non significa abbandonare o dimenticare ciò che è stato e la grandezza di chi ci ha preceduto. Fuor di metafora, Anchise è proprio il simbolo di un passato che ci appartiene, che abbiamo conquistato, su cui ci fondiamo. Non ci fermiamo davanti al passato, ma con esso sulle spalle ci slanciamo verso il futuro.

Questo concetto, apparentemente complesso e articolato, è ben espresso ed iconicamente reso da Gianni Dessì, l’autore della straordinaria opera che introduce questo articolo, Qui ora. Un’enorme mano sbuca da terra sorreggendo una lanterna a forma di casa. È il passato che torna ad affacciarsi sul presente, quasi a volerlo illuminare, chiarire con la propria luce. Una luce che tuttavia non c’è. La casa brilla dall’interno e si colora d’un giallo vivo, acceso, capace di suscitare nello spettatore un immediato ottimismo. È il simbolo d’un passato che è la nostra casa comune, calda e accogliente. Un passato che non getta luce sul futuro, ma ci invita ad affrontarlo con coraggio e ottimismo. Come quando il figlio lascia la casa per la prima volta e il genitore vorrebbe indicargli la strada, ma non può farlo. Il futuro, infatti, non gli appartiene, il futuro è del figlio e sarà lui a dover trovare la propria luce, la stella polare, quel punto fisso che renda chiara la via.

È nel rapporto con la Storia che si fonda il nostro ‘qui ora’. Dobbiamo ripensarci e correggere la nostra posizione prospettica. Il solo esserci non dice nulla.

Così Dessì commenta la propria opera e ci invita ad allargare i confini del nostro ‘qui ora’. L’uomo non è un ‘esserci’, un punto nella storia, ma un passaggio, un movimento, che parte dal passato e dona forma al futuro. Il passato, insomma, si sporge sul presente senza la volontà di plasmarlo, ma per aiutarlo a trovare la propria forma, il proprio ‘qui e ora’, il proprio tempo e contesto. Il fatto che Dessì abbia realizzato quest’opera per un’occasione particolare – i 150 anni dall’Unità d’Italia – e un luogo particolare – l’Archivio di Stato di Roma – la carica di un significato ancora più profondo: il nostro grande passato non è un punto d’arrivo, bensì un punto di partenza privilegiato. Ritorna, dunque, l’intuizione di Caproni: ogni uomo è nel profondo Enea.

[…] Enea che in spalla

un passato che crolla tenta invano

di porre in salvo […]

per la mano

ha ancora così gracile un futuro

da non reggersi ritto. […]

Caproni, Il passaggio di Enea, Versi, vv. 52-57

È tempo, dunque, di riguadagnare il presente, di traghettare il futuro verso nuovi lidi, portandosi sulle spalle il passato. Una sfida cruciale, un passaggio necessario di cui le nuove generazioni devono farsi carico. A chi adora Michelangelo dico, quale sarà il tuo tocco di scalpello? A chi ama gli scritti di Leopardi dico, quale sarà il tuo verso? A chi celebra la filosofia del passato dico, qual è il tuo pensiero? A tutti voi io chiedo, in fuga da una Troia maestosa, ma in fiamme, dove fonderemo la nostra Roma? Su quali lidi ci porterà il destino? La vita ci chiama a compiere il viaggio, pieno di rischi e insidie, che fu di Enea.

Articolo di Alvise Renier originariamente apparso su Cogito et volo

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