Paolo Rumiz, giornalista de Il Piccolo e La Repubblica, entra in largo San Giorgio con uno zaino aggrappato alla schiena, gli spallacci stretti sotto i palmi delle mani, in quella postura esperta che interessa tronco e spalle ma influenza piedi e andatura. Lo si capisce: per lui viaggio e dialogo vivono della stessa identità, richiedono la medesima preparazione; oggi si trova a Pordenone per dialogare attorno al suo “Appia”, ed è per questo che la livrea da viaggiatore pare a tutti così autentica, quasi fisiologica.
Ha disegnato e scoperto questa grande, a lungo “dritta come una palla di fucile”, via Appia. Ne ha cercato le tracce sulle mappe antiche – non sulle impronte, ormai coperte dal passare dei secoli e degli uomini, dei viaggiatori che lo hanno preceduto. La “Regina delle strade d’Europa” è stata infatti percorsa a piedi per la prima volta in due secoli, ma la sua metonimia per il resto del Paese non si ferma alla geografia di monti, valli, campi di grano, paludi, guadi e vulcani. L’abusivismo edilizio, che interrompe lunghi tratti del cammino, ricorda la memoria privatizzata nell’intero stivale. Il perduto senso di centralità del sentiero non deve ricordare velleità retoriche, semmai il monito: “non è proprio vero che tutte le strade portassero a Roma, da essa partivano per innervare l’intero continente”. Ma la via racconta di genti che vivono in un passato attuale, come gli inquilini dell’anfiteatro Augusteo di Formia che profuma di “melanzane a friggere nell’olio bollente”.
“È l’andatura, il camminare, la vera chiave della nostra personalità”.