È da una narrazione, e non da un semplice ragionamento astratto, che Umberto Curi sceglie di partire per la propria riflessione sulla natura essenzialmente duplice della nostra condizione come esseri umani: perennemente condannati ad essere noi stessi e, allo stesso tempo, prigionieri di molteplici identità, che spesso ci abitano fuori dalla volontà e dalla consapevolezza.

La figura di Edipo, riconosciuta dal pubblico man mano che il racconto procede, è quanto mai emblematica. Curi la definisce “l’archetipo della duplicità” per eccellenza: nato nonostante il vaticinio negativo dell’Oracolo di Delfi, il quale aveva previsto che il figlio dei sovrani di Tebe (Laio e Giocasta) avrebbe, se messo al mondo, ucciso il padre e avuto una relazione incestuosa con la madre, viene abbandonato sulla cima di un monte. Per impedirgli di tornare a Tebe e di realizzare la profezia, al bambino vengono incatenati i piedi: da qui il nome di Edipo, cioè Oidípūs, “dai piedi gonfi”. Condotto a Corinto e allevato come figlio legittimo da Polibo e Merope, i sovrani della città, Edipo ignora le vicende che riguardano la sua nascita fino al compimento della maggiore età, quando un amico, dopo un litigio, lo insulterà definendolo bastardo. Recatosi all’oracolo di Delfi per scoprire il segreto della propria identità, Edipo riceve la stessa profezia dei genitori; arrivato ad un trivio, un incrocio di tre strade (quella proveniente da Delfi, quella che lo riporterebbe a Corinto e quella che lo condurrà verso Tebe), Edipo sceglie l’ultima, volendo scongiurare la profezia, non sapendo di dirigersi invece verso il compimento di quest’ultima. Qui, Curi si sofferma su un particolare: la fatalità, la dimensione drammatica dell’incrocio e del bivio, arrivata fino alla tradizione moderna, che ci spinge ad ornare gli incroci tra vie con immagini sacre e a sperare che queste ci aiutino nella scelta che ci si pone di fronte.

Nella via verso Tebe, Edipo incontra, senza saperlo, Laio, suo padre, accompagnato da un gruppo di servitori: nasce un alterco per la precedenza in una strada stretta, da cui scaturisce un duello. Laio rimane ucciso, insieme a tutto il suo seguito (eccezion fatta per un elemento soltanto). Giunto alle porte di Tebe, Edipo risolve finalmente l’enigma della Sfinge, che impone la morte a chiunque non sappia risolverlo: qual è il vivente che ha contemporaneamente quattro, due e tre zampe? Edipo risponde, senza esitazioni, che si tratta indubbiamente dell’uomo, condannato ad essere, al contempo, uno e molti, in un contrasto indissolubile (che, inconsapevolmente, attanaglia anche lui stesso). Quando, dopo aver sposato la regina (sua madre) e aver realizzato la profezia, condurrà un’indagine per scoprire l’identità dell’assassino che, secondo l’oracolo, si nasconde a Tebe e ha causato l’arrivo di una pestilenza mortale, Edipo, in un dualismo ineliminabile, si porrà sia come colui che fa chiarezza che come colui che si autorivela. Edipo rappresenta dunque quello che, secondo Curi, è “il sigillo della condizione umana”l’alterità connessa all’identità, l’estraneo come componente intrinseca del proprio essere. Edipo è sia basileus, sovrano giusto, che tiranno, nonostante ogni fibra del suo essere ignori la verità che la costituisce.

Suggestivi e altamente simbolici gli esempi che Curi sceglie per concludere il proprio percorso: quello di Eco e Narciso, amanti infelici, e quello di Prometeo, titano ribelle, pilastro della cultura e della mitologia occidentale. Tra Narciso ed Eco non può esserci comunicazione: l’uno cerca negli altri il puro e semplice riflesso di sé, l’altra sa esprimersi solo ripetendo frasi già sentite pronunciare; l’uno riconosce negli altri solo la propria identità, l’altra costruisce invece la propria identità sull‘alterità altrui. Prometeo emancipa l’essere umano attraverso un dono (quello della tecnica), che nasconde però sempre del dolore, della negatività: rende indipendenti, eppure disumanizza e pone in una condizione di subalternità.

La riflessione di Curi ci pone, inevitabilmente, di fronte ad una realtà che non riusciamo (e forse non riusciremo mai) ad accettare razionalmente. Pur radicati nella nostra individualità, siamo doppi solo nel migliore dei casi: nel peggiore (e decisamente più reale) siamo molteplici, consapevoli solo a metà di ciò che ci costituisce in una società che ci chiede, oggi più che mai, di conoscerci più a fondo di quanto sia alla nostra portata.

 

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