Che cos’è l’Arte? Ne si può dare un’interpretazione univoca? Durante la conferenza “L’arte di scrivere d’arte il compositore Claudio Ambrosini e lo storico d’arte Giovanni Bianchi hanno espresso un concetto chiaro: non esiste una lettura unilaterale dell’Arte e nulla vieta che un genere artistico possa farsi interprete di un altro.

Iniziato alla scultura nell’infanzia, Ambrosini asserisce: “Nel passaggio alla musica son rimasto scultore”. Come ogni “scultore” che si rispetti, adotta una prospettiva nella realizzazione dei suoi lavori e sostiene che l’idea che ha di questo concetto sta nel conciliare la foga innovatrice che investe ogni artista con tutto ciò che c’è stato prima. E’ il contrario della nostalgia, che sostiene essere negazione del presente. Per meglio chiarire questo concetto, porta ad esempio alcune sue composizioni. Anzitutto, “Scherzo: omaggio a Escher”, in cui  Ambrosini accompagna  l’ascoltatore un viaggio nel tempo scandito dalle note musicali, che  dal Rinascimento lo riconduce alla contemporaneità, permettendogli di prendere coscienza di passato e presente. La sua riflessione, però, si concentra principalmente sulla sua composizione più recente ” Morte di Caravaggio: copia dal vero per fagotto e orchestra”. In questo brano il principio di commistione artistica si fa palese. Ambrosini ambisce a la scena della morte del Caravaggio per mano dei suoi sicari, dopo un estenuante inseguimento sul litorale toscano. Per farlo utilizza il fagotto, strumento insolito e mai protagonista all’interno del complesso orchestrale. Le note si trasformano nelle urla del pittore, in squarci di luce, nella riproduzione stessa della lotta, in un respiro flebile che lentamente si spegne. Tutto ciò risulta essere estremamente artificiale, uno scherzo percettivo, ma anche l’emblema di come la musica si possa fare pittura e scultura, di come le note possano essere viste come parole di un testo letterario nel loro divenire.

Giovanni Bianchi, invece, presenta L’Edizione d’arte della Galleria del Cavallino. La racconta a partire dalla presentazione del suo fondatore Carlo Cardazzo, che a partire dal 1928 inizia ad interessarsi all’Arte, vista come “un vivere il proprio tempo”. Benchè privo di una formazione alle spalle, intraprende la strada del collezionismo, dapprima solo locale e, in seguito, nazionale. Crea attorno a sè un cenacolo in cui si discute degli argomenti più disparati ( letteratura, cinema, teatro, fotografia). Denota un certo gusto per la classicità ma anche uno spiccato interesse verso l’espressionismo. Questo è palese quando nel 1934 fonda L’edizione d’arte della Galleria del Cavallino, che consta di testi raffinati in cui argina al massimo l’intervento della critica, per lasciare enorme spazio agli artisti, sia per la stesura che per la realizzazione di immagini. Negli anni ’40 esce il “Numero unico del Cavallino”, che, attraverso una mescolanza di poesie, spartiti, disegni, riporta in sè l’idea di arte che ha Cardazzo: quello di comunicarla attraverso un’azione visiva e sonora pura, senza l’intervento della critica.