Presso l’auditorium di Villa Perotti, a Chions, in queste settimane succede qualcosa di curioso: il paesaggio friulano, invece di starsene zitto come un vecchio saggio sotto il cappello delle montagne, decide di parlare attraverso cinque giovani artisti che hanno deciso di valorizzare in senso pittorico il nostro territorio.
All’interno delle attività realizzate dal Comune di Chions, vincitore del bando DANTE – Pratiche culturali sostenibili e resilienti per un’offerta innovativa e integrata di turismo letterario, la mostra Lâ di là – Corrispondenze d’arte contemporanea, visitabile dal 15 novembre al 14 dicembre 2025, ideata e promossa dal giovane artista chionsese Giacomo Facca, riunisce opere dello stesso Facca, Francesca Bullo, Alessio Bertolo, Samantha Gerolin e Roberta Liut in un dialogo che non ha nulla di bucolico e tutto di profondamente vivo.
Il valore di Lâ di là è che a far parlare il paesaggio friulano non sono artisti già consacrati o figure “da manuale”, ma una generazione giovane, viva, testarda quanto basta per prendersi cura del proprio territorio invece di darlo per scontato.
L’innesco ideale lo dà Pasolini, con quella frase che scava dentro come certe sue inquadrature: la sintassi del poeta nasce dal paesaggio, non dall’imitazione ma dall’immersione. È un’idea potente, perché ci ricorda che non viviamo semplicemente “in” un luogo: il luogo si deposita in noi, ci modella il pensiero e persino il modo in cui colleghiamo le parole. Gli artisti della mostra partono proprio da questa consapevolezza quasi geologica.
Il titolo Lâ di là, che in friulano significa “trapassare, travalicare”, spalanca la porta alla vera intenzione dell’esposizione: andare oltre la superficie delle cose. Non c’è nulla di cartolinesco nelle opere che ci si trova davanti. Nessun prato perfettino, nessuna montagna da calendario. Al contrario, il paesaggio che emerge è quello che si sente quando ci si ferma sul greto di un fiume e il rumore della ghiaia diventa una specie di lingua. È quello che vibra nelle camminate nel bosco, nelle strade dell’abitato, negli angoli dove l’asfalto ha perso la guerra contro il tempo. È un paesaggio che si infila sotto pelle.

Gli artisti non mostrano il Friuli com’è, ma il Friuli come passa dentro di loro. Ne escono luoghi mentali, corpi trasformati in mappe, sentieri che si biforcano come i pensieri quando si tenta di ricordare un’infanzia o di riconoscere un confine. A guardarli, sembra di entrare in un atlante affettivo: ognuno vede il proprio percorso riflesso nelle curve, nei vuoti, nei colori che non appartengono a nessun bosco ma fanno credere a un bosco.
Accanto alle opere, un’antologia di testi – in italiano e in friulano – accompagna la visita come un coro che sale da Grado fino alla Carnia. Non è un vezzo, ma un richiamo al senso di appartenenza verso un Friûl che cambia, talvolta scompare, talvolta riaffiora in forme nuove. I brani degli autori friulani funzionano come una bussola emotiva: mentre si osservano le opere, accendono risonanze inattese tra parola e immagine, tra memoria e presenza.
Chi entra nella mostra finisce per muoversi in un territorio ibrido, metà reale e metà immaginario, dove il paesaggio non è quello fuori dalla finestra ma quello che ognuno porta dentro. È un piccolo viaggio, e come in tutti i viaggi ben fatti non si torna indietro uguali a prima.
Per questo vale la pena farsi un salto a Villa Perotti: la mostra non si limita a esporre opere, ma apre una conversazione con quel Friuli che, anche quando sembra tacere, continua ostinatamente a parlare. E attraversarlo, anche solo per un’ora, significa fare un gesto semplice e antico: guardare ciò che ci circonda con occhi un po’ più attenti, un po’ più propri.

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