C’è stato un tempo in cui il Friuli non guardava soltanto verso i monti o i campi, ma verso il cielo. E non solo alla Comina o ad Aviano. All’inizio del Novecento, in piena Prima guerra mondiale, Casarsa della Delizia divenne uno dei principali centri italiani per la sperimentazione e l’impiego dei dirigibili, giganti d’aria che solcarono i cieli prima che l’aeroplano ne prendesse definitivamente il posto.
Di fatto, la conquista del cielo da parte dell’uomo ebbe luogo già nel Settecento, quando i fratelli Joseph-Michel e Jacques-Étienne Montgolfier fecero sollevare nel cielo francese, nel 1783, il primo pallone aerostatico. Poco dopo, il fisico Jacques Charles, professore alla Sorbona, ne perfezionò la formula riempiendo l’involucro di idrogeno anziché di aria calda. Il principio era semplice e geniale: sfruttare un gas più leggero dell’aria per galleggiare nel cielo.
Quasi un secolo dopo, nel 1852, l’ingegnere Henri Giffard riuscì a compiere il primo volo con una vera aeronave “dirigibile” – lunga 44 metri, dotata di un piccolo motore a vapore – percorrendo 27 chilometri sopra l’Ippodromo di Parigi. Da quel momento, la mongolfiera smise di essere solo un sogno poetico e diventò un mezzo tecnico, controllabile, militare.
Il passo successivo arrivò con il conte Ferdinand von Zeppelin, che nel 1900 costruì il primo dirigibile a struttura rigida. I suoi giganti, lunghi oltre cento metri, attraversarono l’Atlantico con passeggeri a bordo: il “Graf Zeppelin” del 1928 poteva volare per cinque giorni consecutivi a 115 km/h, con 40 uomini d’equipaggio e 30 passeggeri.
Era l’alba dell’aviazione moderna.
In Italia, il primo dirigibile fu costruito nel 1905 dal conte Almerico da Schio che battezzò la sua aeronave “Ausonia”. Nel 1909 venne testato un dirigibile “P” da 2700 m³ che compì la traversata Bracciano-Napoli. Da quel modello nacquero i tipi “P” e “M” impiegati nella Prima guerra mondiale.
Quando nel 1915 l’Italia entrò in guerra contro l’Austria-Ungheria, il Corpo Aeronautico Militare – guidato dal colonnello Maurizio Morris – organizzò una flotta di dirigibili per ricognizione e bombardamento. I cantieri principali erano a Campalto, Boscomantico, Ferrara, e poi – cruciale per il fronte orientale – a Casarsa della Delizia.
Casarsa, per la sua posizione strategica a ovest del fiume Tagliamento, rappresentava un punto di osservazione ideale e una base sicura per le missioni verso il fronte austro-ungarico. Nel 1915 fu così avviata la costruzione del cantiere per dirigibili, con due imponenti hangar in acciaio e tela impermeabile, progettati per ospitare le aeronavi di tipo “M” e “P”. I lavori terminarono nel luglio dello stesso anno, su terreni espropriati tra la ferrovia e la strada statale Pontebbana, verso Orcenico Inferiore.
Gli hangar di Casarsa erano colossi metallici: oltre 150 metri di lunghezza, 75 di larghezza e 70 d’altezza, orientati in modo da affrontare il vento frontale – condizione indispensabile per l’ingresso e l’uscita di un dirigibile. In Friuli, oltre a Casarsa, basi simili sorsero a Tauriano di Spilimbergo e Campalto, ma quella casarsese ebbe il ruolo più avanzato e strategico.
Il nome di Casarsa è legato soprattutto al dirigibile M4, protagonista di una delle prime grandi tragedie dell’aeronautica italiana. Nella notte tra il 3 e il 4 maggio 1916, l’M4, al comando del capitano Giovanni Battista Pastine, partì da Casarsa per bombardare gli accampamenti austriaci di Aisovizza e Rubbia-Merna, nei pressi dell’Isonzo. Conclusa la missione, l’aeronave rimase senza carburante sopra Gorizia, divenendo un bersaglio immobile. Due aerei nemici lo attaccarono ripetutamente finché l’M4 esplose in volo, precipitando in fiamme nel cielo di Vertoiba.
Morirono tutti i sei membri dell’equipaggio, decorati poi con medaglia d’argento al valor militare. Persino i nemici ne riconobbero il coraggio. Gli ufficiali austro-ungarici, in un messaggio lanciato dal cielo, scrissero: “Gli ufficiali aviatori italiani trovarono la morte da eroi nel fedele adempimento del loro dovere”.
Nel 1917, dopo la disfatta di Caporetto, le truppe italiane si ritirarono oltre il Tagliamento. Gli hangar di Casarsa furono spogliati e abbandonati in fretta, per non cadere intatti nelle mani del nemico. Ironia della sorte, poco dopo gli stessi italiani bombardarono la base per impedirne l’uso da parte austriaca. Nelle ultime fasi della guerra, i dirigibili restanti operarono in missioni notturne di bombardamento e ricognizione, ma ormai la loro epoca stava finendo: gli aerei, più veloci e manovrabili, avevano preso il sopravvento.
Nel dopoguerra, l’utilità dei dirigibili declinò rapidamente. Nel 1924, il Ministero dell’Aeronautica ordinò la demolizione degli hangar di Casarsa. Durante i lavori, il 1º luglio 1924, uno dei grandi scheletri metallici crollò improvvisamente: due operai morirono, nove rimasero feriti. Fu l’ultimo lutto legato a quella straordinaria avventura. Da quel momento, l’area rimase una distesa anonima adibita a pista di atterraggio per emergenze di supporto alle vicine basi di Aviano e di Campoformio.
Per approfondire:
- P. Garofalo, G. Argentin, G. Vendramin, Gio Battista Tesolat, Il cielo su Casarsa. Storia e leggende di macchine volanti, di dirigibili, aeroplani ed elicotteri dagli inizi del ‘900 ai giorni nostri, Museo Storico del Friuli Occidentale “Gen. U. Romei”, San Vito al Tagliamento, 2001.
- G. Zorzit, I Campi d’Aviazione della brughiera pordenonese, a cura di D. Antonini, Arti Grafiche Cosarini, Pordenone, 1970.

Pordenonese, classe 1992. Ho conseguito il dottorato di ricerca in Studi storici tra l’Università di Padova, Ca’ Foscari di Venezia e l’Università di Verona. Mi sono laureato a Ca’ Foscari con una tesi sul rapporto tra l’università veneziana e la Dalmazia, premiata dall’Ateneo Veneto nel 2020. Mi piace pensarmi come uno spettatore di eventi che un giorno saranno considerati storia: ciò che viviamo oggi, domani sarà oggetto di studio e di riflessione. Per questo credo che raccontare e divulgare il passato sia una delle sfide più affascinanti. È anche il motivo per cui scrivo con passione per le mie amate Radici.