È l’alba. La nebbiolina si sta lentamente diradando per le strade di una Barcellona misteriosa, incantata, sconosciuta anche a coloro che la abitano e la vivono da generazioni; una città sempre nuova, sempre diversa, capace di rinnovarsi continuamente, le cui storie, le cui leggende – alcune delle quali antiche come la fondazione della città stessa – impregnano ogni ciottolo, ogni pietra, ogni costruzione, ogni via. Ogni luogo racconta un fatto, un avvenimento, non spettatore ma parte attiva della città.

Ed è proprio in una di queste storie che si imbatte Daniel Sempere, protagonista de L’ombra del vento, acclamato romanzo dello scrittore spagnolo Carlos Ruiz Zafón. Orfano di madre, vive con il padre sopra la libreria antiquaria che appartiene alla sua famiglia da generazioni. È nato e cresciuto in mezzo ai libri; li osserva, li annusa, li studia, cerca di prenderne le misure e di capire che ruolo possano davvero svolgere nella sua vita. Fino a quando la sua strada non si incrocia con quella del Cimitero dei Libri Dimenticati, luogo nascosto e difficile da raggiungere se non se ne conosce l’ubicazione; vero e proprio luogo di culto per tutti coloro che venerano il testo scritto, che ne riconoscono l’importanza e il suo essere fondamentale. Ma soprattutto, è il rifugio dove recarsi quando si è persi, soli, confusi, in cerca di risposte. Vulnerabili. Perché il libro giusto, quello capace di toccare l’anima e il cuore di chi legge, può diventare il tuo migliore amico, l’unica ancora di salvezza, la sola possibilità di trovare un senso alle proprie azioni.

Ed è questo che prova Daniel quando si imbatte per la prima volta in Julián Carax, autore poco conosciuto, sfuggente, il cui nome sembra recare con sé solo sventura e la cui vicenda personale si intreccia con una di quelle storie di mistero e di amore di cui la città si ciba voracemente, con avidità, quasi fosse la sua linfa vitale.

E che, soprattutto, sembra descrivere la sua vita, le sue vicende, i suoi sentimenti.

Mi abbandonai a quell’incantesimo fino a quando la brezza dell’alba lambì i vetri della finestra e i miei occhi affaticati si posarono sull’ultima pagina. Solo allora mi sdraiai sul letto, il libro appoggiato sul petto, e ascoltai i suoni della città addormentata posarsi sui tetti screziati di porpora. Il sonno e la stanchezza bussavano alla porta, ma io resistetti. Non volevo abbandonare la magia di quella storia né, per il momento, dire addio ai suoi protagonisti. Un giorno sentii dire a un cliente della libreria che poche cose impressionano un lettore quanto il primo libro capace di toccargli il cuore. L’eco di parole che crediamo dimenticate ci accompagna per tutta la vita ed erige nella nostra memoria un palazzo al quale – non importa quanti altri libri leggeremo, quante cose apprenderemo o dimenticheremo – prima o poi faremo ritorno.

Come resistere a un richiamo del genere? Come scegliere di non conoscere a fondo l’autore di qualcosa che ci ha toccati tanto profondamente, in maniera così viscerale? Come accettare di dover continuare a considerare sconosciuto qualcuno che ormai fa parte del nostro cuore, che consideriamo il nostro più intimo amico?

La risposta è una sola: non si può.

Daniel sceglie di non rimanere inerte, di non accontentarsi dei racconti approssimativi che gli vengono riferiti, ma di arrivare al cuore della storia, di comprendere perché questo sconosciuto abbia cominciato a rivestire un ruolo così importante nella sua vita; perché lo tormenti la convinzione che, se riuscirà a risolvere il mistero che gli si pone davanti, potrà finalmente dare una risposta anche ai suoi dubbi, alle sue paure. A capire un po’ di più sé stesso. A trovare, finalmente, la tanto agognata pace.

Ma l’elemento davvero fondamentale è che tutto parte da un libro; libro che, a uno sguardo poco attento e superficiale, appare solamente come un misero ammasso di fogli posti uno accanto all’altro; in realtà, invece, custodisce il vero cuore, la vera anima di colui che legge.

Perché, a volte, scegliere di leggere un libro può davvero salvare la vita.