Chi sa in che era geologica siamo oggi? Nell’Olocene. L’Olocene è cominciato circa diecimila anni fa, ma i nostri antenati uomini-scimmia risalgono al Pleistocene, l’epoca precedente, entrambe facenti parte dell’era Neozoica o Quaternaria. Cos’era successo prima? Be’, i dinosauri girovagavano circa 250 milioni di anni fa (nella Seconda era, il Mesozoico), e anche loro erano relativamente giovani. Noi discendenti degli ominidi abbiamo vissuto ben poco, rispetto ai pesci (444 milioni di anni, era Primaria detta Paleozoico). A cosa è dovuto questo progresso esponenziale dell’uomo, che nelle ultime migliaia di anni ne ha fatte di cotte e di crude?
Per scoprirne le origini, dobbiamo trasportarci in una sitcom ambientata 500mila anni fa, dal titolo Il più grande uomo scimmia del pleistocene.
Questo libro è l’unico romanzo del giornalista Roy Lewis, pubblicato nel 1960 e tradotto successivamente in italiano da Adelphi.
Lewis si mette negli ironici panni di un uomo-scimmia dal nome Ernest, il quale fa parte di un’orda, la sua famiglia. Spicca da subito il padre, tale Edward, rivoluzionario incallito che guarda al bene evolutivo della specie, contrastato immancabilmente dalla figura di zio Vania, uomo-scimmia che vive ancora sugli alberi e disdegna con fare sprezzante e profetico ogni miglioria apportata dal fratello. C’è zia Mildred, che si ritiene la compagna di Vania, zia Angela che aspetta il ritorno del marito Ian che non si fa vedere da anni, e i fratelli del narratore: Oswald il cacciatore, Wilbur fenomeno nel campo della selce, Alexander che ha la testa tra le nuvole e il piccolo William, che si ostina a farsi mordere le caviglie da cuccioli di lupo o cinghiale che cerca di addomesticare.
La storia comincia con l’orda che deve sopportare nottate terribili in balia della fame felina, con occhi bestiali che li guardano nell’oscurità e che prima o poi attaccheranno. L’unico sistema escogitato per proteggersi è una palizzata appuntita sorvegliata con dei turni di guardia. Siamo infatti nel periodo della lavorazione della selce, scandito da battute di caccia insoddisfacenti e dall’onta di doversi servire agli stessi banchetti degli avvoltoi.
Tutto cambierà una notte, quando, dopo l’ennesima decimazione dell’orda da parte degli animali, Edward scalerà un vulcano e ritornerà con in mano la prima arma che porterà l’uomo-scimmia a scalare la catena alimentare: il fuoco. La prima arma del progresso.
«Davvero, stavolta l’hai proprio fatta grossa, Edward» disse zio Vania, addentando una spalla di cavallo.
«Me l’hai già detto» ribatté papà, mentre si dava da fare con una costata di cinghiale di prima scelta. «Ma non hai saputo dirmi cosa c’è di sbagliato nel progresso».
«Tu lo chiami progresso» ribatté zio Vania, gettando nel fuoco un pezzo di cartilagine immangiabile. «Io la chiamo disobbedienza. Sì, Edward: disobbedienza. Mai nessun animale è stato concepito per rubare il fuoco dalla cima dei monti. Hai trasgredito le eterne leggi della natura. Adesso assaggerei un po’ di quell’antilope, Oswald».
Gran parte dell’umorismo accattivante del libro viene usato per far prendere posizione al lettore su grandi temi come: l’evoluzione, la potenza del progresso tecnologico e materiale, gli interessi del singolo a confronto con gli interessi della specie, la giustizia e l’equità.
Edward ama mettere in difficoltà l’orda ai fini dell’evoluzione, rammaricandosi di non sapere se sono già alla fine del Pleistocene o ancora all’inizio, poiché in questo caso sarebbe ancora tutto da fare. Non si siede mai sugli allori, una volta scoperto e ammaestrato il fuoco decide che è giunta l’ora, per i suoi figli, di cercare moglie altrove e non all’interno della famiglia com’era solito fare. Con un tranello li spinge lontano, e li ammonisce di non ritornare nella loro caverna se non con una bella fanciulla rubata ad un altro branco: è l’inizio dell’esogamia. I fratelli si infuriano, ma messi alle stretto sono costretti ad ingegnarsi ed elaborare un piano per prender moglie.
Tuttavia il progresso non è solo vittorie, ma anche pericoli ed errori, che mettono a repentaglio la vita della tribù.
Sopravviveranno i figli al pericoloso rivoluzionario che è il padre? Sopravviverà il padre, all’intelligenza che ha innescato nella mente della prole?
Scopritelo in questo libro, che ci ricorda chi siamo e da dove veniamo.
«Ernest!» gridò papà, rosso di indignazione. «Non intendo ascoltare altro!».
«Invece mi ascolterai!» dissi con rabbia. «Tu non sei l’unica persona interessata. Io sto pensando ai bambini! Sto pensando alla carriera futura dei miei figli, di quelli di Oswald e Alexander, e anche dei tuoi, Wilbur! Io sì che ci penso davvero, al futuro dei nostri bambini, e senza vagheggiare romanticherie. E vi dico che non dobbiamo gettar via l’occasione di imporci quali fuochisti e pirotecnici patentati. Non sto dicendo nulla contro la caccia come professione, Oswald; dico solo che possono essercene altre, di professioni, almeno per chi non è capace di correre forte come te».
«Non hai tutti i torti» dichiarò Oswald. «Dopotutto perché dovremmo dare gratis le nostre idee a questi tangheri? Per la gloria?».
«Ma per il bene della specie, è evidente!» esclamò papà.
Vivo in Carnia, a qualche minuto in bici da Tolmezzo, dal 30 luglio 1993. Dopo anni di inedia spirituale in un girone del liceo scientifico, prendo una boccata d’aria in Università a Udine, laureandomi in Turismo Culturale. Amo il sole sulle valli della mia terra, ma amo ancor di più le parole in nero su bianco. Scrivo per la rubrica Pensieri, raccontando agli altri le voci e le storie che incrocio e che mi lasciano qualcosa dentro.