I romanzi e le opere letterarie che tentano di cogliere, nei suoi diversi aspetti, il dramma della gioventù sono oramai talmente tante che non ci si fa più nemmeno troppo caso. L’ebbrezza del sentirsi vivi, l’emozione della responsabilità, la vaga angoscia del dover trovare il senso a tutte le cose e alla propria esistenza: sensazioni che, spesso, molti autori non più giovani rivivono con occhio critico attraverso i loro personaggi, costruiti come incarnazioni di vizi e virtù. In molti di questi ritratti, la gioventù è speranza e rinnovamento, ma anche sconsideratezza, lascivia, vizio, indolenza. Chi è giovane è spesso portatore di valori incomprensibili a chi lo giudica dall’alto della propria maturità: una sorta di riflesso nel quale non ci si riconosce più, e nel quale è sempre meno difficile – per molti – credere. Quando si legge un romanzo come Dio di illusioni, l’impressione è quella di un ritratto impietoso e maniacale, di un giudizio che non lascia spazio alcuno al perdono: ma sarà davvero così?

Scritto dalla statunitense Donna Tartt e pubblicato per la prima volta nel 1992 con il titolo “The Secret History”, Dio di illusioni è una condanna e un inno al tempo stesso. Il narratore è Richard Papen, studente universitario di umilissime origini approdato quasi per caso, e grazie ad una borsa di studio, in un esclusivo college del Vermont. La passione viscerale per la letteratura greca e latina lo spinge a richiedere l’ammissione ad un ristrettissimo circolo di studenti, autorizzati a prendere lezioni di greco dal professor Julian Morrow. E’ qui che Richard farà la conoscenza di quelli che diverranno i suoi compagni: i gemelli Charles e Camilla Macaulay, il prodigio Harry Winter, il sofisticato Francis Abernathy e l’irriverente Bunny Corcoran. Tutti, ad eccezione di Richard, sono ricchissimi e abituati ad uno stile di vita ricco di eccessi, noia, abbondanza e leggera insofferenza. Nel primissimo capitolo del romanzo, Richard ha già confessato: il lettore viene infatti informato della morte di Bunny, e può intuire che questa sia avvenuta per volere del gruppo stesso. Il romanzo procede, quindi, al contrario: non con la ricerca del colpevole, ma con una lenta dissezione delle motivazioni che hanno portato i colpevoli – già noti – a compiere l’atto.

Richard, con il suo status di outsider rispetto al resto del gruppo, è un narratore eccezionale. Letteralmente ossessionato dai suoi compagni, dal loro stile di vita e dai loro comportamenti, ne disseziona maniacalmente ogni dettaglio: perennemente diviso tra l’incredulità e la tentazione di lasciarsi trascinare, Richard si scopre estremamente debole di fronte agli stimoli degli altri, alla decadenza che pervade ogni gesto, al richiamo dell’alcol e delle droghe per affogare la monotonia. Donna Tartt dipinge una gioventù di luci al neon, deliri allucinati, insofferenza, ribellione che si consuma nell’indolenza, nel vizio e nell’esclusività del proprio sapere: un ritratto che, in molte sfumature, ricorda quello di Bret Easton Ellis in American Psycho (Tartt fece, non a caso, la conoscenza di Ellis al Bennington College, situato proprio nel Vermont). L’autrice, di solida formazione classica, costruisce un’atmosfera dionisiaca, con continui richiami all’istinto e all’animalità: innumerevoli sono i riferimenti alla letteratura, alla filosofia e al pensiero greco antico, vissuto dagli studenti di Morrow come una materia di studio elitaria e selettiva, alla quale si sentono in dovere di fare onore. Quando, durante uno dei rituali del gruppo, l’inevitabile violenza esplode, la reazione è di pacata passività: Tartt riesce, con intelligenza mirabile, a comprendere e a rendere perfettamente anche le spesso complicate dinamiche psicologiche del gruppo, che tende via via a polarizzarsi e ad escludere i suoi estremi.

Dio di illusioni è un romanzo che racconta una giovinezza disperata, priva di riferimenti, certa solo della potenza dei propri sensi, impotente. Una giovinezza che si aggrappa alla forza, all’elasticità del corpo e dello spirito, perché è l’unica cosa che resta; una vita che cede al nichilismo e alla caducità del vivere, senza tuttavia riuscire mai ad accettarli.