Nella seconda metà dell’Ottocento il Pordenonese cambiò volto. Le grandi industrie tessili attirarono masse di lavoratori, soprattutto donne, che si trovarono per la prima volta immerse in un mondo regolato da orari, cottimi, dormitori aziendali, sorveglianza e paternalismi invadenti. Le loro proteste non nacquero compatte: furono episodi sparsi, improvvisi, spesso privi di organizzazione stabile. Prese nel loro insieme, queste raccontano l’emergere di una nuova coscienza del lavoro.

Negli anni Ottanta dell’Ottocento il territorio vide i primi scioperi: quello delle tessitrici di Roraigrande nel 1887, contro una revisione al ribasso del cottimo; quello degli operai di Torre, innescato da un alterco con il direttore; e una lunga serie di tensioni che mescolavano precarietà salariale, arbitrarietà nei licenziamenti e percezione, molto diffusa, che il potere dei dirigenti fosse di fatto incontrollabile. Licenziamenti senza spiegazioni, processi basati su indizi fragili e interventi armati della forza pubblica alimentavano la frattura sociale.

Alla fine del secolo la stampa cittadina iniziò a parlare apertamente di “questione operaia”, segno che la città si rendeva conto che la fabbrica non era solo un luogo di produzione, ma di conflitto e trasformazione. Sebbene le prime idee socialiste circolassero già dagli anni Novanta, per la maggioranza si trattava di mobilitarsi per chiedere semplicemente di condizioni lavorative migliori.

Il biennio 1905-1906 fu particolarmente intenso. Nel 1905 Cordenons divenne teatro di uno scontro particolarmente duro: ad agosto le filandine del setificio Ceresa scioperarono. Per tutta risposta, la cavalleria caricò le manifestanti nelle vie del paese senza riuscire a piegarle.

Intorno, il fermento era continuo: scioperavano gli sterratori del Cotonificio Veneziano, poi gli operai della fabbrica di concimi di Vallenoncello; le donne tumultuavano in piazza per il rincaro del grano; la produzione nei cotonifici cresceva ma non partiva, tanto da saturare lo scalo ferroviario. Perfino la mancanza di vagoni minacciava di fermare l’attività.

In questi anni la vita operaia non era fatta solo di scontri. Le prime leghe operaie e cooperative di consumo, nate già dagli anni Settanta dell’Ottocento, offrirono un embrione di rete sociale: spacci autogestiti a Borgomeduna, Fiume Veneto, Torre, poi una nuova cooperativa nel 1903, fondata dagli operai senza tutela padronale. Ma l’esperienza cooperativa rivelò presto anche i suoi limiti: durante la serrata del 1906 la ditta Amman revocò il credito agli operai, usando il magazzino come strumento di pressione.

L’opera più ambiziosa del movimento fu la Casa del Popolo di Torre, inaugurata nel 1909 dopo una sottoscrizione popolare e il lavoro gratuito dei muratori. Un edificio grande, simbolico, con il ritratto di Marx sulla parete di fondo: un luogo dove sindacati, partiti e lavoratori potevano riconoscersi come comunità. Durò finché il fascismo non la occupò, rinascendo nel secondo dopoguerra.

Nel 1906 il conflitto sociale raggiunse l’apice. La scintilla che fece scoppiare l’incendio fu lo sciopero delle operaie tessili di Fiume Veneto. Le donne chiedevano di equiparare i salari a quelli delle colleghe degli stabilimenti Amman di Borgomeduna.

Quando, alla fine dell’inverno di quell’anno, duecento di loro lasciarono il reparto, il corteo diretto verso Pordenone venne bloccato dai carabinieri al ponte sul Meduna. Seguì una spirale di tensioni: lancio di pietre, presidi armati, arrivo di alpini e cavalleggeri, licenziamento di tutte le scioperanti, processi immediati e condanne. Le donne, per impedire l’uscita dei semilavorati, arrivarono a sdraiarsi sulla strada.

A Pordenone la solidarietà fu immediata. Le leghe operaie di Torre, Roraigrande e Borgomeduna rinunciarono a una giornata di salario per costituire un fondo di sostegno. Gli operai raggiungevano Fiume Veneto a piedi “rubando a se stessi il riposo”. La ditta reagì serrando i reparti, minacciando la chiusura dello stabilimento di Borgomeduna, sfrattando gli scioperanti dalle case di fabbrica e revocando il credito nelle cooperative. La città intera si trovò sull’orlo della paralisi economica.

Il 23 marzo 1906 scattò la serrata generale: lo stabilimento di Borgomeduna venne occupato dai militari all’alba. Si mobilitarono il Municipio, la Provincia, la Società Operaia e il Partito socialista, che fece intervenire esponenti nazionali come Enrico Ferri, criminologo e allievo di Cesare Lombroso.

Dopo una dura lotta e difficili trattative, l’11 aprile si giunse all’accordo: miglioramento salariale per le operaie di Fiume Veneto; solo quattro licenziamenti, con indennizzo; nessuna cancellazione dei contratti nello stabilimento di Pordenone. Nel tempo, anche i quattro licenziati furono riammessi.

L’episodio lasciò una scia di processi, condanne e amarezze, ma segnò un punto di svolta. Per la prima volta i lavoratori della Destra Tagliamento avevano condotto una battaglia lunga, organizzata, sostenuta da reti sindacali e politiche; avevano resistito a pressioni dei proprietari e dei militari, e avevano ottenuto un riconoscimento concreto.

Il Pordenonese entrò così nel Novecento come un territorio dove la fabbrica non era più solo un luogo di produzione, ma di negoziazione, conflitto, solidarietà e identità collettiva. Tutto frutto di un contesto industriale ed economico in continua evoluzione.

 


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