Nella tradizione culturale ebraica è fortemente radicata la convinzione che il racconto, l’aprire la strada di se stessi – e in se stessi – celi un’efficace sentiero di autoterapia in direzione dei più interni locali di ogni individuo. Immediata e triviale è non solo l’attinenza con l’ambito della psicanalisi, ma anche (ed è quello che ci interessa) con quello della letteratura. Può capitare dunque che le storie di una madre saturino lo scenario interiore di una figlia di ancestrali figure che parlano del proprio retaggio, della storia di una famiglia e, in definitiva, di quella di un popolo.

Il profumo della pioggia nei Balcani, ultima pubblicazione di Gordana Kuic’, suggerisce lo sguardo coraggioso delle donne di un nucleo familiare ebreo sefardita in una Sarajevo che, a più riprese, le decisioni dei grandi uomini del secolo scorso hanno voluto sfigurare, e soffocare, e deturpare. La narrazione è affidata ad un’efficace staffetta tra il punto di vista di una madre, vero riferimento della famiglia, e quello dello scenario esterno: articoli di giornale dunque, corrispondenza.

E’ facile restare immersi nell’intimo calore delle vicende delle cinque figlie della donna, ragazze devotamente partecipi nella propria comunità eppure così fiere, avverse agli stereotipi e alla tenace ricerca di individualità. La stessa parabola amorosa dei genitori aveva riscosso un certo successo, tra quei giudizi sussurrati a mezza voce dai vecchi sefarditi: la convivenza orfana di matrimonio, l’etnia serbo ortodossa del prescelto. Riki, la più piccola delle figlie, agganciò il desiderio di diventare una ballerina nelle accademie di Vienna e Zagabria, e come lieve e minuta ballerina in una Belgrado satura della spigolosa muscolarità delle colleghe russe. Laura, la primogenita, fu probabilmente l’unica donna studiosa della tradizione storico-culturale sefardita, e talentuosa autrice di opere teatrali in ladino. I suoi lavori, per la cronaca, sono a tutt’oggi tra i più discussi nelle tesi di laurea in materia.

Il finale, dai contorni incerti, suggerisce un seguito di cui si attende la traduzione italiana, e che narra le vicende familiari dalla conclusione della seconda guerra mondiale fino al 1965. Racconta della diaspora di una famiglia che, come in tutti i grandi scritti, sussurra di quella di un popolo intero. Del periodo buio, dovuto a ristrettezze economiche, del padre dell’autrice; del trasferimento negli Stati Uniti di una delle cinque sorelle e della rottura del piede e del cuore di Riki: una caduta dal palco e un uomo già sposato come responsabili. Del minore dei fratelli, che dopo aver sperimentato la crudezza dei campi di prigionia tedeschi fu uno dei primissimi coloni del neonato stato di Israele; della maggiore delle sorelle, a cui la morte giungerà prima della notizia della scomparsa dei figli in un campo di concentramento.

Ci sono molti livelli di lettura di un romanzo: quello personale, quello storico, quello culturale. Ma la storia resta l’elemento fondamentale, e il centro del mio lavoro.

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