Raramente ci si può scontrare con un romanzo che fenda il giudizio sui personaggi – ma più in generale sulla natura umana – con un taglio così netto e pulito da lasciare un massiccio retrogusto di incomprensibilità: Il nocciolo della questione è uno di questi strani esemplari. La narrazione si sviluppa intorno alle figure del maggiore Scobie, funzionario dell’imperio britannico di servizio in un’imprecisata colonia africana, e Edward Wilson, introverso e ambizioso agente sotto copertura. Greene dipinge un’Africa occidentale a cui il secondo conflitto mondiale arriva spento, velleitario, scandito da stanchi quanto inutili colpi meccanici. Persino la guerra navale, a cui si accenna più volte e che introduce il personaggio di Helen – l’amante del protagonista – pare una sorta di calamità naturale di cui si debbano stancamente accettare le conseguenze, come per una pioggia monsonica o un lieve terremoto.

L’esotismo dei luoghi risulta appena accennato, parsimonioso: un geco sul soffitto, il graffiare degli avvoltoi sui tetti di lamiera, la stagione secca e quella delle piogge. La libertà, per il lettore, di ampliare l’ambiente circostante in uno scenario interiore completo gode di ampio respiro, ma risulta di secondo piano: l’intento di Greene è quello di descrivere il paesaggio del romanzo fino – mai oltre – al punto di escluderlo dal contesto europeo o occidentale. E’ sufficiente la coscienza di trovarsi in un non ben specificato altrove. In quest’ottica, nemmeno il Paese dove si svolge la vicenda è nominato: non ne si avverte la necessità. Al contrario, le descrizioni degli interni si fanno più dettagliate, e tuttavia riescono a mantenere il ritmo della narrazione in inquadrature rapide, dinamiche quanto quelle di una cinepresa.

La versione presentata della religione cattolica, che arriva al punto di saturare la coscienza del suo protagonista, è insieme pragmatica e francescana. Scobie spesso si trova ad organizzare la propria esistenza per accumulo di privazioni dettate, più che da uno spirito di sacrificio che tuttavia domina le pieghe del suo modello di eticità, da una sorta di rigetto del superfluo: i suoi luoghi quotidiani – così come quelli interiori – vengono erosi e scremati da tutto ciò che a lui pare inutile. La religione, la vera religione, si può dunque vagamente rintracciare e tratteggiare in uno spazio esterno alla Chiesa di Roma, estranea all’infinita misericordia divina – la dimensione religiosa è personale, scevra da dogmi, aliena alle gerarchie ecclesiastiche. Tuttavia Greene non esprime giudizi in merito, se non accenni – assai simili a sfoghi spossati e dettati da un confuso senso di nausea – nelle parole dei due preti che appaiono nella storia: padre Rank e padre Clay.

I personaggi di Greene si fanno ambasciatori di un’umanità debole, peccatrice, e tuttavia trovano complessità nei propri dissidi interiori e nelle incertezze, nei contrasti delle proprie passioni. Personaggi talvolta passivi, ma dotati di una dimensione interiore mutevole, rischiosa: spesso in bilico tra santità e dannazione. Il suo protagonista, Henry Scobie, possiede uno scenario interiore finemente scolpito da una solida ma distaccata legge morale, al punto che persino gli odori e le geometrie dei luoghi dell’oppressione provocano in lui un’istintivo moto di nausea. Egli è un uomo fondamentalmente di buona volontà, la cui preoccupazione è la tutela degli ultimi, degli innocenti. Ed entrambe le donne a cui è legato lo sono, oppresse dallo stridore con cui gli individui o i Paesi conducono i rapporti diplomatici: Louise è vittima dell’apparente necessità umana di adagiarsi su una piatta quanto rassicurante mediocrità, mentre Helene è una superstite di quella guerra navale che, come già scritto, viene presentata come un obbligo a cui i due schieramenti devono adattarsi, un conflitto pro-forma. Tuttavia Scobie, in pieno accordo con una letteratura fieramente divincolata dalla figura del protagonista-eroe, è, tanto quanto un uomo giusto, anche un peccatore – nel senso più profondo del termine; un adultero inconsapevole, un corrotto ricattato, un omicida per procura. Un peccatore in perpetuo dialogo con un Dio interiore, immeritevole di perdono in quanto incapace di pentimento; consapevole e largamente responsabile di entrambe le condizioni. Estraneo alla misericordia divina perchè incapace di perdonare se stesso. Questo, dunque, il dissidio che rende il personaggio vivido e credibile: quello tra legge morale interiore e azione, tra buona volontà e risultati, tra ferrea risolutezza e inefficacia nello sciogliere i nodi privati. La sua figura è magnetica nel dedicare ogni fibra interna alla titanica impresa di garantire la felicità altrui: non per un affetto disinteressato, piuttosto per la personale necessità ad alleviare il proprio senso di responsabilità verso il genere umano. Le frizioni che germogliano nel suo animo – e che finiranno per corromperlo irrimediabilmente – non trovano genesi da una serie di eventi finemente impostata in modo da apparire costrittiva e necessaria, ma da una crescente tendenza all’autosabotaggio: l’avvicinamento con il mellifluo commerciante Yusef, l’attrattiva di un amore fedifrago, il distacco con cui riceve la notizia della mancata promozione e l’indifferenza con cui infine rifiuta l’incarico a Comandante lo indirizzeranno verso una decisione inappellabile, un colpo di spugna sulle gradazioni della sua personale legge interiore. Tale scelta sarà dettata, inoltre, da quello che rappresenta il punto irrinunciabile della propria essenza, per cui ogni sacrificio sia giustificato e che è da sempre il centro del moto delle sue decisioni, vessillo ultimo di dignità.

Da giovane, Scobie era convinto che l’amore avesse a che vedere con la comprensione, ma con gli anni aveva imparato che nessun essere umano può realmente comprendere un altro. L’amore è il desiderio di comprendere, si disse, ma a furia di fallire il desiderio muore, e muore anche l’amore, o forse si trasforma in questo affetto doloroso, in questa lealtà, in questa compassione…

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