Nel panorama degli economisti italiani tra Otto e Novecento, il nome di Federico Flora è oggi quasi dimenticato, eppure la sua storia sembra racchiudere l’intera parabola di un Paese. Intellettuale in perenne dialogo con il proprio tempo, liberista per convinzione, statalista per necessità, sempre alla ricerca di un equilibrio tra libertà economica e giustizia sociale, egli fu senza dubbio uno dei più illustri pordenonesi del Novecento. Professore, giornalista, uomo di montagna e di banca sempre legato alla sua Pordenone, la sua voce racconta non solo l’evoluzione di una disciplina, ma anche la tensione morale di chi tentò di conciliare l’etica del mercato con le fragili ambizioni dello Stato italiano.
Federico Flora nacque a Pordenone il 3 luglio 1867, quando l’Italia unita era ancora un esperimento fragile e carico di promesse. Figlio di Giovanni Battista e Sofia Bevilacqua, mostrò presto una spiccata inclinazione per gli studi economici: dopo aver frequentato Ca’ Foscari, allora Scuola superiore di commercio, ottenne nel 1890 l’abilitazione all’insegnamento di economia, statistica e finanza per gli istituti tecnici. Quattro anni dopo conquistò la libera docenza in scienza delle finanze e diritto finanziario presso l’Università di Napoli, dando inizio a una carriera accademica che lo avrebbe condotto da Foggia a Cremona, da Genova a Catania, fino a Bologna.
A Bologna trovò la sua casa intellettuale. Nominato professore ordinario nel 1910, vi insegnò fino al 1937, quando fu collocato a riposo con il titolo di professore emerito. Qui, oltre a formare generazioni di economisti, divenne una figura di riferimento per gli studi di finanza pubblica e politica economica. Le sue lezioni, ricordate per chiarezza e rigore, mettevano in dialogo il pensiero liberale con i problemi concreti della fiscalità e della moneta.
Formatosi nella scuola liberista di Angelo Bertolini, a cui dedicò la sua opera principale, il Manuale della scienza delle finanze (1893), Flora concepiva l’economia come disciplina morale oltre che tecnica. Quel Manuale, nato come testo didattico, si trasformò nel tempo in una vera enciclopedia della finanza pubblica italiana, aggiornata fino al 1921 e tradotta in spagnolo. Il suo merito più innovativo fu l’approccio comparativo: Flora metteva a confronto le legislazioni finanziarie europee, individuando tendenze comuni e peculiarità nazionali, anticipando così un metodo che oggi chiameremmo “internazionale”.
Ma Flora non fu solo accademico. Fu anche giornalista e polemista, un economista che scriveva per farsi capire dal grande pubblico. Collaborò con Il Sole, Il Resto del Carlino, Il Mattino, La Voce e numerose altre testate, dalle cui pagine condusse battaglie civili e finanziarie: difese la lira, sostenne la conversione della rendita, si oppose al protezionismo e alla tassa di successione, e promosse l’avocazione allo Stato delle ferrovie e delle assicurazioni sulla vita.
Pur di formazione liberista, riconobbe con lucidità che alcune attività economiche — soprattutto quelle di pubblica utilità — potevano essere gestite dallo Stato, purché non con fini puramente fiscali ma sociali, in vista del bene collettivo.
La sua autorevolezza gli valse incarichi prestigiosi: nel 1924 rappresentò l’Italia nel comitato Dawes per la questione delle riparazioni tedesche dopo la Prima guerra mondiale; dal 1919 al 1948 fu presidente della Banca popolare di credito di Bologna e, dal 1925, membro del consiglio di amministrazione delle Ferrovie dello Stato. Fu inoltre socio dell’Accademia dei Lincei, dell’Accademia delle scienze e socio aggregato all’Accademia d’Italia.
L’avvento del fascismo segnò un passaggio delicato. Iscritto al Partito nazionale fascista dal 1933 e senatore dal 1934, Flora si adattò al nuovo clima politico, pur conservando tracce del suo passato liberale. Continuò a difendere la stabilità della moneta e si mostrò favorevole alla rivalutazione della lira, ma la sua adesione al regime rimase più pragmatica che ideologica. Gli studiosi lo hanno definito un “liberista conservatore”, talvolta contraddittorio ma sempre acuto osservatore dei fenomeni economici.
Negli anni tra le due guerre, ridusse la produzione accademica ma intensificò l’attività giornalistica. Si occupò di debito pubblico, credito, svalutazioni e prestiti nazionali, insistendo sull’idea che lo Stato dovesse mantenere la fiducia dei cittadini più che ricorrere all’espansione monetaria.
Nonostante la vita trascorsa lontano dal Friuli, Federico Flora non dimenticò mai la sua terra. Collaborò con i settimanali pordenonesi Il Tagliamento e Il Noncello, e coltivò una grande passione per la montagna: fu il primo pordenonese a iscriversi alla Società alpina friulana e compì numerose ascensioni nelle Dolomiti, dal Raut alla Pala Fontana, dal Duranno alla Caulana.
Mantenne sempre costanti rapporti con la città natale: sposato con Maria Giovanna Ricchieri e spesso residente nell’omonimo palazzo in Corso Vittorio Emanuele, fu partecipe protagonista delle vicende più significative degli anni Venti e Trenta. In particolare, accanto al giurista antifascista Augusto Cassini, fu fervente sostenitore della ricostituzione del Tribunale di Pordenone, soppresso nel 1923 e ricostituito nel 1937 presso l’ex-convento dei Domenicani.
Flora morì a Chiusi il 1° maggio 1958, dopo una vita interamente dedicata allo studio, all’insegnamento e al servizio civile. Pordenone lo ricorda oggi nel nome dell’omonimo Istituto d’Istruzione Superiore, fondato nel 1970 come Istituto professionale ad indirizzo Commerciale e Turistico.
Nella sua figura, oggi poco ricordata, si specchia un’Italia in trasformazione, divisa tra libertà e autorità, tra mercato e Stato, tra scienza e coscienza: in un certo senso, tensioni che ancora oggi attraversano il nostro tempo.
Per approfondire:
- Marina Colonna, FLORA, Federico, in Dizionario Biografico degli Italiani , v. 48 (1997)
- Andrea Cafarelli, Flora Federico, in Dizionario Biografico dei Friulani. Nuovo Liruti, Istituto Pio Paschini per la storia della Chiesa in Friuli.
- Giuseppe Griffoni, Viaggio nella memoria. Pordenone fra cronaca e storia. 1943-2000, Edizioni Propordenone, Pordenone, 2005.
Pordenonese, classe 1992. Ho conseguito il dottorato di ricerca in Studi storici tra l’Università di Padova, Ca’ Foscari di Venezia e l’Università di Verona. Mi sono laureato a Ca’ Foscari con una tesi sul rapporto tra l’università veneziana e la Dalmazia, premiata dall’Ateneo Veneto nel 2020. Mi piace pensarmi come uno spettatore di eventi che un giorno saranno considerati storia. Per questo credo che raccontare e divulgare il passato sia una delle sfide più affascinanti. È anche il motivo per cui scrivo con passione per le mie amate Radici.