A volte, anche un atto di fede può scatenare un turbine di burocrazia, litigi e ironia del destino. È quanto accadde al convento dei Domenicani e alla chiesa del Rosario di Pordenone, nati da un lascito pia del veneziano Alvise Girardi nel 1685 e sopravvissuti, sotto mille forme, fino ai giorni nostri.

Girardi, patrizio della Serenissima e devoto dell’ordine domenicano, lasciò ai frati di Venezia una rendita di 1.200 ducati annui perché costruissero un monastero in Terraferma e vi celebrassero dieci messe quotidiane in suffragio della sua anima. Una generosa intenzione, ma con esiti tutt’altro che pacifici. L’eredità – stimata in centomila ducati ma gravata da debiti – finì nelle mani della Scuola del Rosario ai Santi Giovanni e Paolo, che amministrò i beni con lentezza e sospetti di furbizia.

I frati, esasperati, si rivolsero ai tribunali di Venezia. Ma la causa si trasformò in un labirinto di rinvii e cavilli, dove i ducati evaporavano più in fretta della pazienza. Alla fine, capirono che forse era meglio costruire un convento che una causa.

La fondazione non era nei piani di nessuno, men che meno dei cittadini di Pordenone, già colmi di conventi e chiese. Ma dopo aver scartato altre località, i domenicani scelsero proprio la città friulana: salubre, collegata e dotata di un numero sufficiente di anime da guidare. Non tutti li accolsero a braccia aperte. Il cronista padre Daniel Danieli descrive un clima freddino: i pordenonesi, scrisse, badavano più al “vil interesse” che alla religione.

Nel 1696 i frati acquistarono dai Montereale-Mantica un terreno in borgo Colonna per 2.432 ducati: un appezzamento ampio, con orti, campi e perfino una peschiera. Dopo anni di perizie e discussioni, i lavori iniziarono nel 1699 e si conclusero nel 1728, tra interruzioni, modifiche e mancanza di fondi.

Il progetto, passato dal frate-architetto Ludovico Fachinetti al proto veneziano Angelo Gornizai, mutò più volte fino a definirsi nel caratteristico quadrilatero con chiostro centrale e chiesa del Rosario rivolta a sud. Poco dopo sorse anche il campanile, completato nel 1737: snello, elegante, visibile da tutta la città.

Per qualche decennio il convento visse la sua stagione felice. Pur colpiti dalla riduzione delle rendite dovuta alle guerre contro i Turchi, i domenicani seppero mantenersi grazie a elemosine e predicazioni. La chiesa si arricchì di arte e bellezza: altari marmorei dei fratelli Canzian, pale di Giuseppe Rossi, statue angeliche di Giuseppe Bernardi-Torretti (maestro del Canova) e un altare maggiore di Giorgio Massari, architetto tra i più celebri della Venezia settecentesca. Il risultato era un interno barocco luminoso e armonioso, un piccolo scrigno di fede sul colle di Pordenone.

Ma la gloria fu breve. Con la diffusione delle idee illuministiche e le riforme della Repubblica di Venezia, i conventi divennero bersagli della politica laicizzante. Nel 1770, la Deputazione ad pias causas decretò la chiusura delle case religiose “superflue o povere di rendite”: i domenicani di Pordenone furono tra i primi a cadere.

La decisione spaccò la città. Le persone pie protestarono, mentre quarantacinque cittadini firmarono una petizione per cacciare i frati, accusandoli di essere ormai un peso. Forse più che la filosofia dei Lumi, furono vecchie rivalità locali e contrasti con il clero secolare a decretarne la fine. Dopo appena quarant’anni di splendore, la “fortezza della fede” chiuse i battenti.

Il convento, ormai vuoto, non restò tale a lungo. Con la caduta di Venezia e l’arrivo dei francesi, Pordenone fu travolta dalle guerre napoleoniche. I francesi confiscarono i beni ecclesiastici e trasformarono l’ex convento in caserma e magazzino militare. Le celle divennero camerate, la chiesa deposito, il chiostro scuderia. Dove un tempo risuonavano i salmi, ora si udivano ordini in francese e ferri di cavallo. Tuttavia, proprio questo nuovo utilizzo salvò l’edificio: utile, spazioso e solido, non venne distrutto come molti altri conventi.

Con la caduta di Napoleone e il Congresso di Vienna del 1815, Pordenone entrò nel Regno Lombardo-Veneto sotto il controllo austriaco. Con il ritorno degli Asburgo, nel 1815, l’edificio fu mantenuto come bene dello Stato e destinato a caserma e magazzino militare. Ma col passare dei decenni, la sua funzione cominciò lentamente a cambiare.

Quando la presenza militare a Pordenone diminuì e la città crebbe di importanza amministrativa, il grande edificio ex domenicano divenne una risorsa preziosa: solido, spazioso, centrale. Era perfetto per ospitare uffici pubblici e, non molto dopo, anche la giustizia.

Tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento, parte del complesso (come la chiesa) venne demolita e trasformata nella sede del Tribunale di Pordenone. Lì dove un tempo si discutevano i misteri della fede, si cominciò a discutere di cause civili e penali fino al 1923, quando rimase solo la sede della pretura.

Per gran parte del Novecento, il convento attraversò una lunga fase di vita civile. Dopo essere stato sede di istituti superiori tra il 1967 e il 2000, l’edificio rimase inutilizzato, in attesa di una nuova destinazione. Questa giunse nei primi anni Duemila, quando un importante intervento di restauro lo trasformò nella Biblioteca Civica di Pordenone, inaugurata nel 2010.

Il cerchio, in un certo senso, si chiudeva. L’antico convento tornava a essere un luogo di sapere e di quiete, ma aperto a tutti: non più riservato ai frati, bensì ai cittadini. Alvise Girardi voleva dieci messe al giorno per la sua anima. Ne ottenne quattro, un convento, e una storia lunga tre secoli che continua a raccontare, tra pietre e pagine, la danza eterna tra fede, potere e conoscenza.


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