Alla fine dell’Ottocento la vita di un operaio pordenonese si svolgeva dentro un paesaggio industriale giovane, in rapida crescita e tutt’altro che equilibrato. Le filature e le tessiture della città, alimentate dall’acqua dei corsi locali, attiravano manodopera da Torre, Cordenons, Porcia e dalle campagne circostanti. Le giornate iniziavano spesso prima dell’alba, con lunghe camminate verso gli stabilimenti, e proseguivano per undici o dodici ore tra rumore continuo, polveri sospese e macchinari che imponevano ritmi costanti.
Osservatori come Alberto Errera descrivevano le fabbriche pordenonesi come esempi promettenti di modernizzazione: macchine ben mantenute, operai rapidi nell’apprendimento, case aziendali considerate più decorose delle abitazioni rurali. Era un punto di vista tecnico e ottimista, utile per fotografare i progressi materiali, ma incapace di cogliere pienamente la quotidianità degli operai.
Nei reparti lavoravano uomini, donne e anche molti bambini. L’impiego minorile era diffuso per ragioni economiche e culturali: alle famiglie serviva ogni contributo e alcune mansioni richiedevano agilità e dimensioni ridotte. I piccoli venivano destinati alla pulizia dei macchinari, spesso ancora in movimento. La stanchezza e i rischi erano elevati, come mostrano gli incidenti documentati, tra cui quello della quindicenne Santa Vettor nel 1889 che perse un braccio e il cui caso animò la stampa locale. La pericolosità dei turni notturni, ancora più difficili per un minore, non era un elemento marginale ma il risultato della necessità aziendale di mantenere la produzione continua.
La salute degli operai adulti non era migliore. Le polveri della filatura, la scarsa ventilazione, l’alimentazione povera e gli orari prolungati favorivano malattie respiratorie e debilitazione generale. A quell’epoca non esistevano conoscenze mediche e normative specifiche in grado di riconoscere e prevenire tali rischi. Investire in sicurezza rappresentava un costo che poche imprese ritenevano indispensabile in un contesto competitivo e fragile.
La disciplina interna era severa. Il regolamento del 1860, modellato sulla logica del controllo totale, vietava di cantare o parlare, imponeva cauzioni e multe e prevedeva la possibilità di licenziare qualcuno sulla base di una semplice voce di corridoio. Questa rigidità rispondeva al timore imprenditoriale di interruzioni produttive e alla facilità con cui la manodopera poteva essere sostituita. La disponibilità di lavoratori con poche alternative e generalmente privi d’istruzione rendeva più semplice per l’azienda mantenere regole stringenti.
Il salario variava molto a seconda delle mansioni. I ragazzini della filatura guadagnavano pochi centesimi, mentre i capi-sala ricevevano paghe più consistenti. Le donne nella tessitura percepivano compensi leggermente più alti rispetto ai ruoli maschili di base, ma gli orari erano altrettanto lunghi. Il cottimo spingeva ad accelerare i tempi, aumentando la fatica senza garantire una retribuzione stabile.
Il contesto statale contribuiva a questa situazione. L’Italia appena unita non aveva ancora un apparato legislativo efficace per regolare il lavoro industriale. Le prime leggi sul lavoro minorile e sugli orari erano tardive e applicate in modo irregolare per mancanza di ispettori e risorse. Al contrario di Austria e Germania, che in quegli anni elaboravano sistemi previdenziali avanzati, il sistema italiano procedeva per iniziative locali e soluzioni spontanee: casse di mutuo soccorso, fondi aziendali, scuole create dalle fabbriche per sopperire all’alto tasso di analfabetismo, che superava la metà degli operai.
Questo quadro favorì la diffusione del cosiddetto paternalismo aziendale. Le imprese fornivano alloggi, spacci a prezzi ridotti, piccoli sussidi alimentari o medicinali come l’estratto di carne Liebig. Erano misure che rispondevano sia a esigenze reali dei lavoratori sia al bisogno di prevenire tensioni. In un sistema privo di protezioni pubbliche, perdere il lavoro significava talvolta perdere anche la casa o l’accesso ai beni essenziali. Il paternalismo funzionava quindi come strumento di stabilizzazione più che come reale miglioramento delle condizioni di vita.
Accanto alla fabbrica sopravviveva il lavoro a domicilio, percepito come una forma produttiva flessibile e “morale”. In realtà manteneva bassi i salari e ostacolava l’organizzazione collettiva, ma per molte famiglie era una risorsa integrativa importante in una fase di transizione dall’agricoltura all’industria. Solo con la diffusione completa del telaio meccanico questo sistema perse la sua convenienza economica.
La mancanza di strutture sindacali efficaci spiegava l’apparente immobilità del mondo operaio fino agli anni Ottanta dell’Ottocento. Le idee socialiste e le prime organizzazioni di categoria si diffusero lentamente. Quando iniziarono a prendere piede, anche Pordenone vide crescere gli scioperi e la partecipazione politica dei lavoratori. Le rivendicazioni erano essenziali: orari meno pesanti, salari più equi, condizioni di lavoro più sicure. Il percorso fu graduale, ma segnò un passaggio decisivo dall’obbedienza forzata alla consapevolezza collettiva.
La vita di un operaio pordenonese alla fine dell’Ottocento si collocava quindi in questo intreccio di fattori: una modernizzazione accelerata ma irregolare, un’economia fragile che richiedeva costi bassi, una manodopera abbondante e poco tutelata, uno Stato ancora inesperto e un sistema culturale che accettava pratiche oggi considerate inaccettabili. Solo da questo complesso equilibrio di necessità, limiti e adattamenti si può capire perché le condizioni fossero tanto dure e come da esse sia poi nato il processo di trasformazione sociale che avrebbe segnato il secolo successivo.
Per approfondire:
Pordenonese, classe 1992. Ho conseguito il dottorato di ricerca in Studi storici tra l’Università di Padova, Ca’ Foscari di Venezia e l’Università di Verona. Mi sono laureato a Ca’ Foscari con una tesi sul rapporto tra l’università veneziana e la Dalmazia, premiata dall’Ateneo Veneto nel 2020. Mi piace pensarmi come uno spettatore di eventi che un giorno saranno considerati storia. Per questo credo che raccontare e divulgare il passato sia una delle sfide più affascinanti. È anche il motivo per cui scrivo con passione per le mie amate Radici.