Fra i dipinti che più hanno contribuito alla creazione e alla diffusione dell’immagine delle donne spagnole nel mondo troviamo sicuramente La chiquita piconera di Julio Romero de Torres. Mi trovo a Cordova, all’interno del museo a lui dedicato, e osservo la serie di donne da lui ritratte, l’aura di mistero che si diffonde dai loro sguardi, il contegno a loro imposto dalla corrente del simbolismo. La chiquita, seduta fra le altre, sembra fissare lo spettatore con i suoi grandi occhi scuri e diffidenti. La pelle olivastra, i capelli mori divisi da una scriminatura laterale e raccolti dietro la nuca, la spalla sinistra nuda, le gambe coperte da sottili calze di seta e le scarpe col tacco ai piedi, sprigionano quella morbida sensualità velata di tristezza che è a tutt’oggi un cliché associato alla bellezza femminile della penisola iberica. Curioso, anzi, quasi paradossale, visto che la modella immortalata non è una ragazza spagnola: la musa del pittore è infatti Maria Teresa Lopez, nata nel 1914 a Buenos Aires, in Argentina, da emigranti cordovesi. Come questa, molte altre storie e leggende si aggirano per le strade di Cordova, donandole un’atmosfera affascinante quanto unica.
Uscendo dal museo mi ritrovo nella Plaza del Potro. Una targa, sul muro al mio fianco, riporta la scritta: «El principe de los ingenios de Espana[…] mencionó este lugar y barrio en la mejor novela del mundo», così omaggiano il loro amato scrittore gli ammiratori di Miguel de Cervantes. Il suo romanzo passa anche di qui, o più precisamente in fronte a questa targa, sul lato opposto della piazza, nella Posada del Potro (la Trattoria del Puledro), una casa di piaceri del XV secolo perfettamente conservata, che oggi ospita il Centro del Flamenco Fosforito.
Mi dirigo verso il centro storico. Anche a Cordova, come in molte città andaluse, permangono i segni del passaggio di più popoli. Così, camminando per le sue vie, ci si può imbattere in un tempio o in un ponte romano, o entrare per errore in una sinagoga dal soffitto finemente lavorato; si può passeggiare per i giardini di quello che era il palazzo dei re cristiani, l’Alcázar, o visitare il museo dell’inquisizione; ma il monumento forse più rappresentativo di questo incrocio di culture è la Mezquita Catedral, la grande moschea di Cordova che fu convertita in cattedrale dopo la reconquista dei cristiani. La particolarità che rende unico questo edificio è la selva di colonne scure sormontate da doppie arcate ocra e rosse che sostengono l’alto soffitto, trasmettendo una sensazione di imponenza e leggerezza allo stesso tempo. Su una di queste colonne è incisa una croce: leggenda vuole che l’abbia tracciata l’unghia di un ragazzo cristiano, al tempo in cui l’edificio aveva ancora la funzione di moschea, dopo essere stato legato alla colonna per aver tentato di convertire la ragazza mussulmana di cui era innamorato.
Ma la leggenda che preferisco è sicuramente quella di José María el Tempranillo: il leggendario bandito andaluso che deve il suo soprannome al fatto che iniziò la sua carriera di fuorilegge a soli 15 anni. El Tempranillo non era una bandito sanguinario e spietato, anzi, parte della sua fama è dovuta al suo lato da gentiluomo: si dice che avesse un occhio di riguardo in particolare per le dame, tanto che quando assaltava la carrozza di una signora, la aiutava a scendere, la accompagnava all’ombra e le prendeva i gioielli, sussurrandole che «una mano così bella non ha bisogno di questi monili».
Non posso certo lasciare questa città senza aver visto uno spettacolo di flamenco: questa intensa danza accompagnata da canto e chitarra, dichiarata nel 2010 Patrimonio culturale immateriale dell’umanità dall’UNESCO, è un’altra espressione della storia multiculturale dell’Andalusia. Fu introdotta in questi luoghi dai gitani, e si mescolò ai canti e alle danze tradizionali andaluse e delle popolazioni perseguitate, i mori e gli ebrei. Mi reco in un tablao, dove possiamo cenare mentre assistiamo allo spettacolo, e per tutta la sua durata l’intera sala viene rapita dai movimenti della ballerina e dal canto malinconico del suo accompagnatore. Nonostante sappia lo spagnolo, non capisco le parole del suo canto, che viene usato quasi come uno strumento musicale. Malgrado ciò, a tutti i presenti nella sala è chiara la triste storia d’amore che racconta, e il suo lamento trasporta le menti lontano, in altri luoghi e altri tempi ormai perduti. Così mi saluta Cordova, presto mi metterò di nuovo in viaggio, questa volta verso Granada.
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