Una delle più interessanti curiosità che riguarda Venezia è che fu il luogo d’origine di una parola ormai diffusa in tantissimi dizionari di diverse lingue: “ghetto“. All’epoca della Serenissima questo termine indicava un’area urbana in cui venivano concentrate le pubbliche fonderie, utilizzate specialmente per la fabbricazione di bombarde e cannoni. Un ruolo, questo, che venne a mancare già nel XV secolo e che destinò l’area a luogo di raccolta e controllo di una minoranza della popolazione: gli ebrei.
Le origini della comunità ebraica a Venezia, diversamente dalla parola “ghetto”, si perdono nei meandri della storia: di certo si sa che essa ha origini molto antiche ed è attestato che, intorno al X secolo, alcuni mercanti ebrei commerciassero nei pressi di Rialto. Una presenza che dovette rafforzarsi parecchio, poiché qualche secolo dopo il Senato veneziano consentì ad alcuni ebrei tedeschi di operare nel campo dei prestiti: una concessione di grande valore- fino a quel momento a Venezia era proibito praticare l’usura- e che permise alla comunità di ingrandirsi.
Tra il 1400 e gli inizi del 1500, agli ebrei residenti, diventati numerosi, fu fatto obbligo di portare un segno distintivo sui vestiti: un cerchio giallo sul mantello o un cappello giallo– che nel XVI secolo sarebbe diventato rosso- utile a individuarli tra la maggioranza della popolazione cristiana. Una finalità di controllo sociale che sarebbe tornata utile anche più tardi: nel 1509, successivamente alla battaglia di Agnadello, moltissimi ebrei provenienti dall’entroterra veneto erano fuggiti a Venezia per evitare i soprusi degli eserciti coalizzati contro la Repubblica; prese avvio così un’immigrazione incontrollata che causò non pochi malumori tra i veneziani e che costrinse la Serenissima a correre ai ripari.
Non potendo in alcun modo respingere chi era parte di una comunità economicamente influente, il governo marciano predispose il raggruppamento di tutti gli ebrei in un’area ben delimitata della città, il ghetto appunto, o meglio “Ghetto Novo“, un quartiere residenziale abitato da cristiani che per la necessità furono sfrattati dalle loro abitazioni. Trattandosi di un isolotto collegato da solo due ponti al resto della città, si predisposero due grossi cancelli, sorvegliati a vista, destinati a rinchiudere tutta la comunità al calar del sole: agli ebrei infatti non era consentito girare liberi per Venezia la notte.
Verso la metà del 1500 nuovi flussi di israeliti giunsero nella capitale della Serenissima dai lontani porti del Levante: il ghetto fu quindi ampliato con la riapertura del “Ghetto Vecchio“, atto ad accogliere i nuovi arrivati. Un flusso migratorio si registrò poi sul finire del XVI secolo, allorché giunsero a Venezia gli ebrei della “nazione ponentina“, o sefarditi, provenienti dalla Spagna e dal Portogallo, mentre l’ultimo, avvenuto negli anni ’30 del XVII secolo e proveniente dall’Europa orientale, consentì un ulteriore ampliamento con il “Ghetto Nuovissimo“.
Diversamente da come si potrebbe pensare, la comunità ebraica veneziana non era quindi tutta uniforme: a fianco di ebrei veneziani vi erano ebrei tedeschi- trapiantati magari da lunga data-, ottomani, greci, spagnoli, slavi… che si distinguevano non solo per il modo di vestire (specialmente coloro che provenivano dal Mediterraneo orientale) ma anche per il mantenimento di usi e costumi tipici. Persino le sinagoghe erano divise per “nazione”.
In breve essi divennero una grande risorsa per la Serenissima: poiché apprezzati e rispettati in diversi ambiti lavorativi- come in medicina- molti ebrei della comunità veneziana riuscirono col tempo ad accumulare ricchezza e sfarzo alla pari della nobiltà cristiana. Il ghetto divenne così un autentico centro culturale, con un teatro, una libreria e diversi salotti in cui si discuteva di tutto. La sua ricchezza tornò poi opportuna a Venezia nei casi di maggiore necessità, poiché utile a sostenere i momenti economicamente più difficili: tuttavia nel corso del ‘700 la tassazione imposta si fece sempre più gravosa a causa della decadenza dello Stato- già nel 1737 la comunità aveva dichiarato fallimento– e ciò spinse molti ad emigrare in altre località in cerca di maggior fortuna, contribuendo a una lenta decrescita della popolazione israelitica.
La fine della Repubblica e l’arrivo di Napoleone pose fine alla segregazione del ghetto e gli ebrei furono da quel momento liberi di muoversi dove volevano, insediandosi in altre parti della città. Non solo: con la legislazione napoleonica essi poterono finalmente godere dei pieni diritti del cittadino alla pari del resto della popolazione. Provvedimenti questi che continuarono ad essere mantenuti anche dagli austriaci e che conosceranno una brusca e oppressiva interruzione, più di un secolo dopo, con le leggi razziali di Mussolini.
Nel 1938, una comunità ridotta a 1.400 anime si ritrovò quindi privata dei normali diritti di tutti i giorni. Tuttavia non mancò la forza d’animo: per rispondere, ad esempio, all’impossibilità per i loro bambini e ragazzi di studiare nelle scuole “ariane”, a Venezia gli ebrei istituirono una scuola solo per loro. Il professor Gino Luzzatto, a cui si deve l’iniziativa, realizzò così una scuola media inferiore di 4 anni, a indirizzo tecnico, utile ad avviare i giovani alle professioni ancora accessibili “del piccolo commercio, della piccola industria e dell’artigianato”.
Tempi ancora più duri sarebbero però arrivati: dopo l’8 settembre 1943, le varie retate da parte dei tedeschi causarono la deportazione di 254 esponenti della comunità, dei quali solo otto sopravvissero ai campi di concentramento. Al termine della seconda guerra mondiale a Venezia restavano circa 1.100 ebrei, a cui si aggiungevano altri 600 tra ebrei polacchi e jugoslavi giunti a Venezia in attesa di imbarcarsi per la Palestina.
Oggi la comunità ebraica conta poche centinaia di membri, nell’ordine di grandezza circa 540-600 persone, tutte testimoni di una millenaria storia totalmente legata a quella della sua città d’origine, Venezia.
Pordenonese doc, classe 1992. Dottore di ricerca in Scienze storiche tra l’Università di Padova, Ca’Foscari di Venezia e Verona, mi piace pensarmi come spettatore di eventi che in un futuro lontano saranno considerati storia. Far conoscere al meglio e a quanti più possibile il nostro passato, locale e non, è uno dei miei obiettivi e come tale scrivo con passione per le mie amate Radici.