Dopo un anno abbondante di attesa è tornata. La serie che nel 2014 ha riscosso favore sia di pubblico sia di critica (evento raro e prezioso), dalla qualità di scrittura e regia magistrali e dalla trama quantomeno controversa, con due attori da premio oscar e come showrunner uno scrittore del tutto estraneo al mondo televisivo, è tornata. Stiamo parlando di True Detective, in onda sul canale americano HBO dal 21 giugno.

La prima stagione, con protagonisti i detective Martin Hart e Rust Cohle, rispettivamente Woody Harleston e Matthew McConaughey, aveva segnato picchi d’ascolto in America e in tutto il mondo. Come per tutte le serie tv, il rischio però non è solo di non mantenere gli ascolti, ma anche di scadere nella qualità e di non rimanere fedele a se stessa. Si aggiunge l’azzardo della scommessa dello showrunner Nick Pizzolatto: la scelta di costruire una serie antologica, cambiando completamente trama e protagonisti dalla stagione precedente per concentrarsi su tutt’altra ambientazione. La domanda che si fanno tutti gli spettatori che hanno apprezzato la prima stagione è quindi la stessa: i nuovi personaggi e la nuova storyline saranno all’altezza dei precedenti?

Già dalla scelta del cast stellare le aspettative di fan e critici erano lievitate progressivamente, anche grazie alla diffusione di pochi e mirati promo e foto promozionali durante l’inizio del 2015. Le premesse sono le seguenti: abbiamo abbandonato la desolata (e desolante) Louisiana e ci ritroviamo in un’altra faccia dell’assolata California, non più quella dalle bianche spiagge ma quella della corruzione e del crimine. La scelta degli attori rimane di alto livello, e i protagonisti provengono da ambienti differenti: Colin Farrell interpreta il poco ortodosso detective Ray Velcoro, Rachel McAdams lo fiancheggia nelle vesti del detective Antigone Bezzerides, Vince Vaughn è il malavitoso di turno Frank Semyon, mentre Taylor Kitsch personifica l’agente Paul Woodrugh. I temi della serie sono messi in chiaro già dalla prima puntata: si parlerà di corruzione, doppiogiochismo, esistenze tormentate e ovviamente casi di omicidio, il cocktail perfetto e già parzialmente esplorato nella prima stagione. Il primo impatto è quello che conta, e anche solo la sigla è degna di nota: tornano le immagini sovrapposte e la compenetrazioni di strutture architettoniche con i profili dei protagonisti, le silhouette di uomini e donne sono fuse con elementi naturali e paesaggi con una netta predominanza cromatica rossa, stavolta tutto sulle note di “Nevermind” di Leonard Cohen, il cui testo sembra già anticipare quello che andremo a vedere (parte del testo è: “There’s truth that lives and truth that dies I don ’t know which so never mind” preannuncia il mondo di bugie e intrighi che viene dipinto nel pilot).

La prima puntata ci ha introdotto la vicenda e i nuovi protagonisti. Ci sono più fili narrativi da seguire e manca la presenza di più piani temporali sovrapposti, e spesso nelle immagini ritroviamo dei parallelismi con la serie precedente. Il paragone con la prima stagione è naturale ma non per forza necessario: anche se il linguaggio e la storia portante di questa seconda stagione risultano molto più canonici della precedente, si rimane comunque su un alto livello stilistico e qualitativo. Non ci rimane che capire se la scelta di una via più classica, che segue il thriller poliziesco, sarà azzeccata e calzante con il tema portante della serie: storie di veri detective.

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