L’atrio d’ingresso del motel a ore per artisti di successo è tappezzato da carta da parati color beige. La manica di graffitisti wannabe, romanzieri cirrotici, cantautori inattuali che frequenta questo genere di locali condivide – oltre ad un’ipertrofia della stima delle proprie capacità – un paio di precetti angolari, a cui ogni suo membro deve attenersi fedelmente:

1. Quella frase di Picasso secondo cui i bravi artisti copiano mentre i grandi artisti rubano.

2. E’ necessario nascondere con cura omicida le opere acerbe, incomplete o mal riuscite.

La produzione artistica di questa loggia fluttua in un limbo di opere copiate, ripudiate e infine disconosciute ed eliminate: una legione di neonati passati a miglior vita prima di aver ricevuto il sacramento del battesimo.

Proprio negli anni in cui, dall’altra parte dell’Atlantico, un führer iniziava a predisporre i suoi panzer con l’ambizione di un tredicenne che ha appena letto il manuale d’istruzioni di Risiko, un giovane attore statunitense aveva deciso di infiltrarsi ad Hollywood come regista: intendeva proiettare il suo cortometraggio di debutto, intitolato Too much Johnson, per poi adattarlo come farsa teatrale da proporre a Broadway. Girato in dieci giorni e post-prodotto in una stanza d’albergo a Manhattan, la pellicola rimase praticamente sconosciuta al grande pubblico: il regista aveva guadagnato più debiti che estimatori. Accatastò il film tra i parti mentali prematuri e lo esiliò dalla memoria per ripensarlo, con la malinconia degli amori sfioriti, durante piovosi pomeriggi di fine autunno. Sorprendentemente, il giovane autore non si risolse ad accettare un lavoro di ripiego in una tavola calda del Sunset Strip: il giovane autore divenne Orson Welles. Poco più di tre anni dopo quello strike uno, uscì nelle sale con un film considerato dai professori dei DAMS di tutto il mondo come il fondamento di qualsiasi corso di Storia del Cinema (12 CFU), ovvero Citizen Kane. Welles, in un’intervista per l’edizione del novembre 1978 della rivista American Film, ricordò come le bobine di Too much Johnson riapparvero durante gli anni Sessanta nella sua villa spagnola:

Non riesco a ricordare se avessi scovato i nastri nel fondo di un baule o se qualcuno me li avesse portati, ma eccoli riapparire: li proiettai ed erano in condizioni perfette, nemmeno un graffio. Cotten [un attore del film] aveva svolto un lavoro magnifico, e io progettai di editare il filmato e spedirglielo come regalo di compleanno.

Pochi mesi dopo il ritrovamento, un incendio incenerì la villa durante l’assenza di Welles: le pellicole, altamente infiammabili, degradarono ad un cumulo di polvere e l’opera fu considerata perduta per sempre mentre, per quanto riguarda il regalo di compleanno a Cotten, chi scrive ammette candidamente di non essere riuscito a scoprire se Welles si servì della scusa dell’incendio per evitare figure infami.

Dopo aver tenuto segreta l’identità del giovane autore per un buon terzo dell’articolo nella speranza che la curiosità superasse la noia e che una volta arrivati a quel punto uno volesse finirlo quasi per inerzia, resta comunque da delineare la funzione della nostra Pordenone nella storia delle bobine scomparse.

Spesso le piccole produzioni – e di sicuro Too much Johnson appartenne alla categoria – devono far fronte ad una serie interminabile di avversità economiche insormontabili, e può dunque capitare che non si trovino le due lire necessarie a ritirare un pacco postale. E’, probabilmente, quello che avvenne nel caso delle bobine del film, ritrovate in un magazzino pordenonese nel 2008, e il cui restauro ha avuto fine nel 2013 grazie ad una collaborazione tra Cinemazero e la National Film Preservation Foundation. La prima mondiale di uno dei registi più amati del Novecento è stata il 9 ottobre 2013, durante le consuete Giornate del Cinema Muto.

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