Incluso nel vocabolario tedesco si nasconde un termine che – a quanto mi sembra di capire da una buona mezz’ora di ricerca su GoogleTranslate – non trova corrispettivi in nessun’altra lingua del mondo ed esprime un’impressione piuttosto comune, io credo: Torschlusspanik, ovvero un vocabolo di origine medievale che indica il timore che attanagliava la popolazione esterna di un castello all’approssimarsi del nemico, e che si riferisce alla possibilità che i varchi venissero sigillati prima di potervi passare per trovare riparo dalla minaccia. In età moderna il significato di Torschlusspanik è mutato, fino ad alludere alla sensazione di non avere sufficiente tempo a disposizione per raggiungere il proprio obiettivo o per cogliere un’occasione: un’inquietudine irragionevole, che tuttavia mi accompagna dallo scorso sabato mattina, quando ho scoperto quali e quante attività si possono praticare con profitto e successo nel misero corso di una singolare esistenza.
Tina Modotti nacque a Udine allo scadere del XIX secolo e nel 1913 decise, per raggiungere il padre scalpellino, di fare da carico a uno delle migliaia di transatlantici diretti negli States. Presto sviluppò un forte interesse per le arti sceniche e apparve in svariate recite, opere teatrali e film muti della Little Italy di San Francisco: i suoi personaggi coprivano spesso lo spettro di sfumature della famme fatale, e nel 1920 ottenne il ruolo da protagonista nel film The Tiger’s Coat, diretto da Roy Clements. Il frequentare circoli bohémien le valse la conoscenza del fotografo Edward Weston, di cui divenne musa e amante con una rapidità fulminea: è all’artista statunitense che si deve l’ingresso della Modotti nel mondo della fotografia. In seguito alla morte del marito, che aveva contratto il vaiolo, Modotti e Weston si stabilirono in Messico, dove Tina perseguì un’intima ricerca nelle vite coriacee dei messicani ed entrò nella scena avanguardista di Città del Messico, dove conobbe Guadalupe Marín, Diego Rivera, Jean Charlot e Frida Kahlo – di cui si vocifera sia stata amante. Nel frattempo, la sua estetica si era spostata da soggetti della natura – fiori, alberi, paesaggi – allo studio del proletariato e degli ultimi del Messico: le sue fotografie iniziarono a ritrarre uomini e a raccontare le loro storie corali attraverso un focus sul particolare: le mani legnose di un contadino, lo sguardo inquisitore di un bambino, il capo chino di un bracciante. Nel 1929, ormai svincolata dall’ombra di Weston, presentò la sua prima mostra, che venne pubblicizzata come “la prima mostra fotografica rivoluzionaria del Messico”: spinta dall’interesse artistico, Tina aveva già sviluppato una forte empatia per la causa del partito comunista messicano, era coinvolta nelle attività del Soccorso Rosso Internazionale e legata a tre esponenti di punta del PCM, ovverosia Xavier Guerrero, Julio Antonio Mella e Vittorio Vidali. In seguito a una campagna mediatica condotta contro i comunisti, nel 1930 fu esiliata dalla sua patria adottiva; con il Messico, abbandonò anche l’arte fotografica per dedicarsi totalmente al suo nuovo ruolo di attivista e rivoluzionaria: fino al 1942, anno della sua morte, condusse una vita tanto inquieta quanto operosa e impegnata politicamente. Fu a Berlino, a Mosca, in Francia e in Europa orientale; con Vidali si unì alle Brigate Internazionali, approdò in Spagna nel 1936 per provare a porre un argine al dilagare nero del Generalissimo Francisco Franco. Quando morì era rientrata a Città del Messico – sotto pseudonimo – da un paio d’anni e Pablo Neruda, con un colpo di coda contro l’ennesima campagna diffamatoria, ne compose l’epitaffio:
Tina Modotti hermana,
no duermes no, no duermes
tal vez tu corazon
oye crecer la rosa
de ayer la ultima rosa
de ayer la nueva rosa
descansa dulcemente hermana.Puro es tu dulce nombre
pura es tu fragil vida
de abeja sombra fuego
nieve silencio espuma
de acero linea polen
se construyo tu ferrea
tu delgada estructura.
La mostra, allestita al museo d’arte moderna e contemporanea “Casa Cavazzini” (Udine, via Cavour 14), resterà aperta al pubblico fino al 28 febbraio, dal martedì alla domenica (10:30-17:00). Vanta molte foto tratte dai negativi originali, documenti prodotti dalla famiglia Modotti, testimonianze dell’impegno sociale, un epistolario ma – più in generale – un avvicinamento accorto e onesto ad una vita multipla, contrastata tra arte e politica, tensione morale, inquietudine e disciplina.