Un romanzo, le cui immagini si nutrono del personale e dell’intimo, è condivisibile quanto un amante fedifrago; i film fuggono alla memoria con la leggerezza di un marinaio che, consumato l’amore, ritorni al suo mare. Ogni buona fotografia occupa i luoghi della mente riservati agli amori più sereni.

E’ a buon titolo che si riconosce Steve McCurry come uno dei migliori fotoreporter della sua generazione – forse della storia. Durante i suoi quarant’anni di carriera ha documentato i conflitti in Pakistan, Afghanistan, Libano, Cambogia, Filippine; in più occasioni ha ottenuto riconoscimenti come il World Press Photo e il Robert Capa Gold Medal. Il suo ritratto più famoso – Afghan Girl – è stato scattato nel 1984 in un campo profughi nei pressi di Peshawar, Pakistan: l’immagine fu scelta come copertina dell’edizione di giugno del National Geographic Magazine, e successivamente è stata nominata “la fotografia più riconoscibile” nella storia della rivista. Lo scatto ritrae la giovane Sharbat Gula, una ragazza afghana riparata in Pakistan a seguito dell’invasione sovietica del suo Paese natale: la posa, il velo sulla testa, lo sguardo indecifrabile rimandano immediatamente la memoria alla Mona Lisa di Leonardo, ma nei suoi occhi – verdi, incantevoli e freddissimi – sembra nascondersi un rimprovero di saggezza infantile.

Da sabato 27 febbraio, la Galleria Harry Bertoia ospiterà una selezione della pluridecennale carriera di McCurry, in una retrospettiva che si propone di oltrepassare le barriere: quelle del tempo e dei confini degli uomini. La mostra, che resterà aperta al pubblico fino al 12 giugno, vedrà anche il passaggio dello stesso McCurry, che sarà presente l’ultimo sabato di febbraio a Pordenone. Un’occasione unica per conoscere uno degli uomini che maggiormente ha contribuito a scalpellare l’immaginario collettivo dei conflitti degli ultimi trent’anni.

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