La storia, si sa, è una delle tante materie che si insegnano a scuola e il più delle volte è tra le più noiose. Quello che impariamo sui banchi ci sembra essere la favola della buona notte: sentiamo parlare di città, guerre, eventi e personaggi, che per noi altro non rappresentano che dei nomi e delle date. Così li tralasciamo, come si stesse parlando di Re Artù o Robin Hood o come se stessimo pensando a Roma antica come fosse scenario di un film di Hollywood. E se invece fosse possibile avere un contatto diretto, toccare con mano la pura realtà storica fino a percepirla come fosse l’attualità? Fantasia, direte voi. E invece no, questo è senza dubbio possibile. Ora, immaginiamo di utilizzare una nostra personale macchina del tempo e mettiamo indietro gli orologi fino ad arrivare in un’epoca lontana, sempre più distante dalla nostra quotidianità ma con molti aspetti che la ricordano.

Siamo nel 316 in piena pianura friulana. Tutto attorno a noi non vediamo altro che alberi e cespugli. Non è un bosco facile da percorrere: è pieno di arbusti e la vegetazione è così densa che non si spazia molto con la vista. Al di là del cinguettio degli uccelli c’è un gran silenzio, un silenzio che ai giorni nostri troviamo solo in montagna. Sembra un paesaggio primitivo, a tratti preistorico, se non fosse per una strada di grossi ciottoli ben fatta che taglia a metà il bosco. Senza dubbio si tratta di una strada romana. Poco più avanti, a margine, vediamo uno strano ceppo di pietra: è una pietra miliare. Alta poco più che un metro e mezzo reca su scritto un numero romano, II, seguito più sotto da una serie d’iscrizioni, per di più a carattere celebrativo. Tra tutte leggiamo un nome, Titus Annius Luscus Rufus: il nome lì per lì non ci direbbe niente ma sappiamo che un Tito Rufo, pretore a Roma nel 131 a.C., si prodigò a costruire una strada proprio nel Nord-Est, la Via Annia.

Senza dubbio quindi ci troviamo proprio su questa via. Il numero II presente sulla sommità ci indica quante miglia mancano alla città più vicina. Senza perderci d’animo decidiamo di proseguire. Nel giro di una decina di minuti usciamo dalla foresta. In breve lo scenario muta: tutt’intorno a noi campi arati e piccoli boschetti fanno da sfondo a una pianura che si estende quasi a perdita d’occhio. Evidentemente non siamo troppo distanti dal mare. Mentre proseguiamo osserviamo qua e là delle case isolate, non frequenti: sono ville. Rispetto al significato che gli diamo oggi, esse non sono solo residenza di campagna di un qualche nobile, bensì  anche delle piccole fabbriche agricole a conduzione familiare, simili nell’aspetto alle odierne fattorie. Con il passare dei secoli, in genere, le più fortunate diventeranno corti, ma a quel punto si sarà già nel medioevo. Guardando verso Nord le Prealpi Carniche e Giulie sembrano immutate rispetto ai giorni nostri.

Dopo circa una mezz’ora cominciamo a scorgere una lunga cinta muraria in mattoni, con un grande ingresso posto sull’estremità verso sinistra: nel complesso ricordano molto le fortificazioni tipicamente medievali, con due grandi bastioni ai lati della porta e una serie di merletti lungo tutte le mura. Arrivati all’ingresso due guardie fanno cenno di fermarci: vorranno sapere chi siamo e dove andiamo. Bella domanda: se sapessimo che città è questa lo diremmo senza problemi. Spieghiamo loro che siamo solo dei viandanti alla ricerca di buoni affari nel mercato locale. Non ci vuole molto: dopo una rapida ispezione ci lasciano passare.

Superato il massiccio portone in legno, la strada prosegue per il centro abitato. Alla nostra sinistra le mura sono a ridosso della via, mentre alla nostra destra una serie di alberi ci separa da una grande struttura, apparentemente in marmo, formata da una serie di ingressi ad arco con ognuno un piccolo portone chiuso. Ci avviciniamo e attraverso la fessura vediamo cosa c’è dall’altro lato. Al di là, una lunga piana di terra, con al centro una serie di sculture e colonne pregiate collocate su una base di marmo finemente levigato, si estende per alcune centinaia di metri. Alcune delle statue, che sembrano essere in oro, sono collocate sulla sommità delle stesse colonne. Alla sinistra, a chiudere la visuale c’è una doppia e altrettanto lunga fila di gradinate, interrotta solo dagli ingressi sull’arena e dalla tribuna d’onore. A destra una sola fila: le mura danno quasi direttamente sulla piana. E’ un circo, o meglio, è IL circo della città. Da come è strutturato è molto simile al più famoso Circo Massimo di Roma, però più piccolo: a occhio e croce sarà lungo sui 450 metri.

Al momento è vuoto, quindi chiuso. Proseguiamo. Dopo un po’ la strada, distanziatasi del tutto dalla cinta muraria, confluisce in quella che sembrerebbe essere la via principale, lunga e soprattutto larga, il Cardo Massimo. Assieme al Decumano, perpendicolare ad esso, è alla base della struttura viaria principale cittadina: infatti vediamo passare un gran viavai di gente, carri e animali. Al centro della via ci sono svariate bancarelle, ognuna che vende prodotti tipici: stoffe dall’Oriente, dalle figure sembrerebbe persino dall’India, spezie dalla Siria e dall’Egitto, bestie e cibi esotici, persino schiavi.

Quello della schiavitù è un mercato in lenta decrescita ma ancora presente nel secolo in cui ci troviamo, essendo base del sistema di economico. Vediamo pure bancarelle ricche di prodotti, simbolo di commerci distanti e di produzione, che sembrano rivelarci un benessere generalizzato. Non dobbiamo però farci ingannare dalle apparenze: il IV secolo è caratterizzato da una continua recessione economica dovuta in larga parte alle esigenze militari, con forte inflazione, una grande tassazione e, per questo e altri motivi, una sempre più marcata tendenza all’abbandono delle città. Molto probabilmente, le ville che abbiamo visto in campagna, al momento sono già residenza definitiva dei nobili che vivono di rendita.

Va inoltre detto che la condizione di schiavo, in questo contesto, poteva essere addirittura preferibile di quella dell’uomo libero: mentre il primo dipendeva totalmente dal padrone nel sostentamento, il secondo, se non era nobile,  doveva lavorare e stare agli obblighi del fisco, al punto che rischiava di perdere tutto, dai terreni alla casa. Di qui l’esigenza di mettersi al servizio di un aristocratico che provvedesse ai suoi pagamenti in cambio di servigi, cedendo a questi la gestione della proprietà di eventuali terreni, prima coltivati autonomamente. E’ questo un altro piccolo passo verso la servitù della gleba e verso il medioevo.

Dietro la fila di bancarelle un grande acquedotto porta l’acqua verso il centro cittadino. Lo seguiamo fino alla sua fine, una cisterna cilindrica in pietra. Da qui evidentemente partono le diverse tubature o vie sotterranee che riempiono le fontane pubbliche e private: è noto che uno dei maggiori meriti dei romani fosse quello di essere grandi ingegneri idraulici, i primi nella storia in questo genere. Le sue dimensioni ci impressionerebbero, se non fosse posta davanti a un grande portico-colonnato che distoglie da essa la nostra attenzione, al di là del quale scorgiamo una ampia piazza lastricata: è il Foro, il nucleo principale della città, punto d’incontro tra Cardo e Decumano, la pubblica piazza degli affari. Senza indugio, vi entriamo.

 

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