Sono trascorsi settant’anni dalla nascita della Repubblica italiana, nel corso dei quali gli italiani hanno avuto modo di passare da una condizione di miseria al benessere collettivo e generalizzato, frutto del progresso. Ma a livello comunitario quanto sono cambiati in tale arco di tempo? E’ ciò a cui il professor Guido Crainz risponde nel suo libro “Storia della repubblica“, presentato in occasione di Pordenonelegge.

Raccontare settant’anni significa raccontare tre mondi: uno rurale, il più antico e radicato, uno industriale, che velocemente si forma e scompare, e uno politico-sociale, direttamente condizionato dalle passioni popolari. Pensare alla trasformazione di un paese rurale, quale l’Italia era alla fine della guerra, in una potenza economica nel giro di poco più che vent’anni, incentra la riflessione sull’importanza del boom economico degli anni ’60, rispetto al quale l’Italia di oggi è completamente diversa.

Periodicamente riemerge la frase “siamo sempre stati così” a indicare atteggiamenti di mancanza o presenza di senso civico, unitamente a un senso di qualunquismo e antipolitica cronica. Una frase che però non rende giustizia a quel popolo che nel 1968 e negli anni ’70 si dimostrò essere particolarmente vivace, attivo e soprattutto ottimista. Negli anni ’60 nascono e crescono gli anticorpi del Paese rappresentati da diverse culture contrastanti il sistema; anticorpi oggi scomparsi o quasi.

Il cambiamento di questo stato di attivismo avviene negli anni ’80, conseguentemente al mancato riformismo a livello politico e istituzionale degli anni ’60, in un paradosso tra modernizzazione strutturale (avvenuta nell’arco di pochi anni in Italia diversamente da altre realtà laddove per raggiungere questi livelli ci si era impiegato dei secoli) e immobilità istituzionale praticamente coeve: un momento cruciale di responsabilità non solo politica ma anche collettiva.

La collettività degli anni ’60 non era quindi quella agricola degli anni ’40 e nemmeno quella dei successivi trent’anni: viveva in una realtà in cui lo sbarco sulla Luna aveva generato un’incontenibile entusiasmo e ottimismo verso il progresso, che si riverberava anche sulla considerazione che si aveva circa la diffusione del benessere e lo sfruttamento delle risorse primarie: al miglioramento della condizione mondiale si pensava in termini di redistribuzione di risorse, ritenute inesauribili, nell’ottica di uno sviluppo inarrestabile, piuttosto che a un ragionamento che verteva sull’esauribilità di queste.

Di fatto gli anni ’80 e ’90 rappresentano una sorta di autocritica in seno alla politica: l’ottimismo si rivelò un’illusione, motivato più dalla prorompente uscita dalla vecchia condizione di povertà che non per reali benefici strutturali che avrebbero reso in grado il Paese di affrontare il futuro. Una condizione di disillusione che motiva ancora oggi un diffuso pessimismo in seno all’opinione pubblica.