Per fare il giornalista bisogna avere fame. Una fame lucida, ragionata, ma mai priva dell’istinto, della necessità di andare oltre. Un vero giornalista ha la costante ambizione di essere lì, quando le cose accadono; essere lì per scriverne, certo, ma anche per vedere con i propri occhi, per la tentazione irresistibile di sporgersi dalla finestra, pur rischiando di cadere. Diritto alla conoscenza, ma dovere morale di far conoscere al mondo.
Paolo Rumiz, inviato del Piccolo e di Repubblica, guarda ai fatti del mondo con occhio vigile, e Trieste, sua città natale, è il punto di osservazione ideale. Oltre Trieste, il Thè diventa Čaj, e tale rimane fino a Vladivostok; oltre Trieste, solo Istanbul e Sarajevo, incontro e scontro di culture diffidenti, a volte addirittura ostili, ma legate indissolubilmente tra loro. Negli anni ottanta, la Jugoslavia comincia a vacillare: la morte del maresciallo Tito nel 1980 ricorda ai balcanici che la grande Jugoslavia era un tempo divisa tra Hitler e Stalin, e dopo un decennio di fermento la bomba esplode; Paolo Rumiz è lì, in Croazia, in Bosnia, in tutta l’area balcanica, per verificare di persona. Così nasce “Maschere per un massacro”, edito da Feltrinelli nel 1996. Ne dice Claudio Magris: “La guerra mette a nudo la verità degli uomini e insieme la deforma. Ci sono tanti aspetti di questa verità; uno di essi è la cecità generale – cecità delle vittime, degli spettatori (i servizi d’informazione occidentale, oscillanti tra esasperazione, ignoranza o rimozione dell’orrore e fra cinismo e sentimentalismo) e della ‘grande politica’, che nel libro di Rumiz fa una figura grottesca.” Ed è lo stesso richiamo che lo porta prima a Islamabad e poi a Kabul, nel 2001, a seguire l’attacco statunitense post 11 settembre. Per raccontare bisogna aver vissuto.
Ma tutto questo non è semplice sprezzo del pericolo: un giornalista non è un eroe romantico, che sfida le intemperie per la gloria, né desidera esserlo. Non la sfida, ma la curiosità muove i piedi e la penna di Paolo Rumiz: la curiosità di esplorare il mondo, anche in maniera non convenzionale, come testimoniano i suoi innumerevoli viaggi sui mezzi di trasporto più disparati, dal treno, alla bicicletta, all’autostop. I “Tre uomini in bicicletta” (Feltrinelli, 2002) da Trieste a Istanbul, la traversata a piedi delle Alpi, la Transiberiana, il pellegrinaggio sui fronti della Grande Guerra che ha dato vita ai 10 documentari pubblicati su Repubblica nel 2014, per il centennale; questi e innumerevoli altri viaggi testimoniano la fame di Paolo Rumiz di conoscere gli uomini, e i rapporti tra essi, tramite l’indagine sui luoghi. Un modo di entrare nella storia, vivendola in prima persona.
Sono nato a Pordenone nel 1993. Mi divido tra musica e lettere; gli studi classici, la scrittura e le lingue straniere, si accompagnano a pianoforte, chitarra, voce e teatro. Mi interesso di geopolitica e diritti umani e già mi sono imbarcato in varie esperienze di volontariato, soprattutto in Palestina.