Il nome di Trieste è diventato famoso nell’ultimo secolo per le vicende che interessarono il confine orientale italiano a partire dalla Grande Guerra fino al ritorno all’Italia nel 1954. Sintetizzando a livello estremo, la sua storia recente è stata di gran lunga la più travagliata della regione e forse dell’intera nazione: un conflitto d’identità senza pari, uno scontro di popolazioni e ideologie in un quadro dapprima liberale, poi dittatoriale, poi d’occupazione e infine di resistenza.

L’identità triestina non deriva da una particolare esplosione demografica o dall’estensione di uno storico dominio ma si formò, come del resto tutte le altre, solo in epoche recenti. La presenza di masse compatte di stranieri, già presenti in città con secolari rapporti di collaborazione inter-etnica, aumentate verso la metà del XIX secolo, fu determinate. Queste masse, nel giro di una generazione, erano in grado di parlare ed esprimersi tranquillamente in italiano, lingua da sempre maggioritaria. Non solo parlavano ma molti “sentivano italiano“: nella tabella dei caduti nella prima guerra mondiale, sita nel monumento nei pressi del Castello di San Giusto, in buona parte sono riportati nomi stranieri. Questi morirono combattendo, come transfughi, contro l’Austria con l’intento di far diventare Trieste italiana.

Molti di questi nomi appartenevano a famiglie della classe media mercantile triestina che, ben conscia degli svantaggi economici derivati dal passaggio della loro Patria all’Italia, era mossa dal più profondo desiderio di essere inglobata all’interno di un’unica nazione (anche a causa del sempre più opprimente governo austriaco dell’epoca). Va però debitamente accennato che non tutta la popolazione, italiana e non, era a favore di questa scelta: dal canto loro pure una parte di sloveni voleva che Trieste facesse parte di un regno slavo entro la monarchia asburgica, senza considerare quella “zona grigia” che nella questione preferiva restare indifferente o dalla parte dell’Imperatore o contro la stessa borghesia, come appunto il proletariato.

Con la fine della guerra, il collasso dell’Impero austro-ungarico fu un fatto imprevisto e indesiderato: l’economia di Trieste subì un tracollo senza precedenti; ancora prima che la nuova Patria temesse la concorrenza del porto giuliano a scapito di quelli della penisola, al punto da penalizzarlo, Trieste, condizionata dalle istanze nazionalistiche del nuovo stato jugoslavo, entrò in crisi d’identità. In molti serpeggiava l’idea che della città l’Italia non sapesse che farsene. Risorsero subito nostalgie austriache e diverse famiglie di origini non italiane, che pure furono irredentiste, emigrarono per le continue vessazione del nazionalismo monarchico e fascista.

Il Fascismo, che pure teneva il mito di Trieste come fondante della sua ideologia, infatti era già all’opera: più violente erano le imposizioni alla minoranza slovena, obbligata a italianizzare il cognome, e impossibilitata a manifestare la propria cultura; nessuna scuola, nessun giornale, proibizione persino di utilizzare in pubblico la propria lingua madre. Emblema di questo clima fu l’incendio del Narodni Dom, la Casa del Popolo slovena, nel 1920, “battesimo dello squadrismo fascista”.

Le nostalgie austriache e irredentismo sloveno però rimasero ed esplosero nel settembre del 1943. I tedeschi occupanti furono molto abili nel ricreare il mito dell’Austria, ricominciando, negli anni dell’occupazione, a favorire gli slavi. La seduzione colpì anche molti triestini nati prima del 1900 che ritrovavano nella lingua dei nuovi occupanti echi dei “saggi” governanti asburgici. Gli industriali locali si presentarono ai nuovi signori dando piena disponibilità non soltanto a collaborare con il regime ma indicando pure alcuni uomini che potessero in futuro rappresentare i loro interessi nell’ambito dell’apparato tedesco.

Si rivela qui l’ipocrisia tipica dell’occupazione: ai triestini “liberati” dall’Italia si chiedeva di collaborare, lavorare insieme, poiché “il lavoro rende liberi“. Un lavoro manuale, pesante e sempre sotto controllo armato. Molti giovani, per mancanza di alternativa (avrebbero dovuto altrimenti arruolarsi), si iscrissero all’organizzazione Todt, un’impresa di costruzioni tedesca sinonimo di lavoro coatto. Migliaia di persone tra i 16 e i 60 anni, sotto minaccia, furono costretti a lavorare  per la costruzione e la difesa della macchina bellica nazista. I tedeschi, in tal modo, garantirono alle aziende locali manovalanza a basso costo, incentivandone così la collaborazione: era quindi naturale che molti imprenditori cedessero alla prospettiva del nuovo ruolo di Trieste nel Terzo Reich.

Alcuni giovani praticarono la cosiddetta resistenza passiva, non rispettando i tempi di consegna o svolgendo lavori mal fatti, con il rischio di venire immediatamente fucilati come “banditen”. I banditi altro non erano che i partigiani di Tito, presenti in massa nell’entroterra triestino e anch’essi reclutatori (anche coatti) di giovani alla causa slava. Costoro infatti non vedevano di buon occhio il concorrente Comitato Nazionale di Liberazione italiano che si opponeva alle loro rivendicazioni sulla città. I comunisti triestini inoltre erano molto deboli per fare rivendicazioni di un certo spessore, poiché in piena crisi ideologica. Il PCI locale, vedendo nella Jugoslavia un ponte verso l’Unione Sovietica, dovette quindi fondersi col partito comunista jugoslavo, accettandone le richieste. Così facendo il fronte triestino della resistenza italiana si indebolì ulteriormente, poiché venne a mancare l’appoggio della maggioranza del proletariato fedele alle direttive del PCI.

Le proposte e le promesse slave erano però ambigue e spesso tradite dalle notizie che provenivano dal fronte, dove i partigiani italiani erano sempre in posizione subordinata. Il capo della Provincia di Trieste, Bruno Coceani, timoroso dell’arrivo delle truppe titine, tentò di venire a patti con il CNL proponendo l’istituzione di un comitato di salute pubblica composto dalle forze di polizia, dai fascisti e dai partigiani italiani. Essendo una contraddizione logica, ogni accordo venne naturalmente rifiutato. Il CNL dal canto suo, non poteva porsi contro la Jugoslavia, una delle nazioni Alleate, e mantenne la linea di lotta contro i nazi-fascisti. Ad ampliare il solco ci pensarono poi i partigiani sloveni che accusarono la resistenza italiana di connivenza con gli occupanti.

A Trieste l’insurrezione generale avvenne cinque giorni dopo quella di Milano: il 30 aprile 1945 le brigate dei partigiani jugoslavi con l’appoggio del PCI attaccarono dall’altipiano. Gli scontri si registrarono principalmente nelle zone di Opicina, del Porto Vecchio, del castello di San Giusto e dentro il Palazzo di Giustizia. Tutto il resto della città fu liberato. Il comando tedesco tuttavia si arrese solo il 2 maggio alle avanguardie neozelandesi, che precedettero di un giorno l’arrivo del generale Freyberg.

Le brigate partigiane jugoslave di Tito erano già giunte a Trieste il 1º maggio e i suoi dirigenti avevano convocato in breve tempo un’assemblea cittadina composta da cittadini jugoslavi e da due italiani, che proclamò la liberazione di Trieste, presentando così i partigiani di Tito come i veri liberatori della città agli occhi degli alleati e spingendo i partigiani non comunisti del CLN a rientrare nella clandestinità. Non solo: furono penalizzati pure quegli slavi triestini non allineati alle direttive jugoslave.

Le vicende che seguiranno saranno ancora cariche di dolori e sofferenze e proseguiranno il clima di guerra per altri due anni, fino al ritiro delle truppe titine dalla città e all’istituzione del TLT.

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